Eliminare gli allevamenti intensivi permetterebbe di abbattere del 68% le emissioni di gas inquinanti: a rivelarlo è uno studio – pubblicato sulla prestigiosa rivista PLOS Climate – che analizza la possibilità di invertire la rotta dei cambiamenti climatici intervenendo sull’agricoltura animale. Secondo gli esperti, la rapida e totale eliminazione degli allevamenti – con il ripristino della vegetazione spontanea – consentirebbe di eliminare oltre la metà delle emissioni di CO2 attuali legate alle attività umane, permettendo di raggiungere gli obiettivi fissati nel 2015 con l’Accordo di Parigi sul clima.
Questi, in particolare, prevedono di limitare il riscaldamento medio globale ben al di sotto dei 2ºC rispetto al periodo preindustriale, proseguendo con gli sforzi per mantenerlo a 1,5ºC. L’inversione di rotta, però, dovrebbe avvenire entro i prossimi 15 anni per poter essere efficace; tra i benefici, anche la stabilizzazione del potenziale riscaldamento globale per i prossimi 30 anni.
Lo studio prospetta uno scenario in cui la diminuzione delle emissioni di metano e degli ossidi di azoto, insieme alla conversione di 800 miliardi di tonnellate di anidride carbonica da parte della vegetazione, permetterebbe di evitare la catastrofe climatica.
Secondo gli esperti, l’eliminazione degli allevamenti di ruminanti, da sola, avrebbe un impatto enorme: “Sebbene forniscano meno del 19% delle proteine nella dieta umana, i ruminanti (bovini, bufali, pecore e capre) rappresentano collettivamente il 90% delle emissioni di CO2 eq. di tutto il bestiame” si legge nello studio, che continua: “Sebbene attualmente i prodotti animali forniscano, secondo i dati più recenti di FAOSTAT, il 18% delle calorie, il 40% delle proteine e il 45% dei grassi nell’approvvigionamento alimentare umano, non sono necessari per nutrire la popolazione mondiale. Le colture esistenti potrebbero sostituire le calorie, le proteine e i grassi ricavati dagli alimenti di origine animale, con un impatto notevolmente ridotto sulla terra, sull’acqua, sui gas serra e sulla biodiversità, richiedendo solo piccoli aggiustamenti per ottimizzare i modelli dietetici”.
Il problema (nascosto?) degli allevamenti
Non è la prima volta che uno studio scientifico punta il dito sugli allevamenti intensivi e sul loro impatto sul pianeta, e quando accade è un bene. Sono passati pochi mesi dal termine della Cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si è conclusa quasi con un niente di fatto; l’emergenza climatica rimane uno dei problemi più gravi che l’uomo dovrà affrontare nel prossimo decennio.
Il punto che tutti sembrano (anzi, vogliono) ignorare è che non abbiamo tempo, specialmente quando si insiste a non dare importanza alla questione degli allevamenti intensivi e del loro impatto sull’ambiente. Non a caso, proprio prima dell’inizio della Conferenza sul clima, alcuni personaggi famosi hanno firmato una lettera per chiedere di riconoscere pubblicamente il ruolo dell’agricoltura animale come uno dei maggiori responsabili del cambiamento climatico. Eppure, ancora una volta, sembra di essere di fronte a un tabù, una questione che tutti conoscono, ma che nessuno vuole affrontare.
Il tentativo di ridurre l’emissione di gas serra continua a focalizzarsi sulla produzione di energia elettrica, sui trasporti e l’industria. Eppure, secondo uno studio dell’Università di Oxford, “l’eliminazione di tutte le emissioni di questi settori non sarebbe comunque sufficiente per raggiungere gli obiettivi stabiliti con l’accordo di Parigi. Il sistema alimentare globale è una delle principali fonti di emissioni di gas serra, circa il 30% del totale globale“. Di questi, ben il 58% è legato alla produzione di alimenti di origine animale.
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