Attacco a Sabrina Giannini per il servizio “Delicatessen”: quali verità emergono dall’inchiesta?

Una nota azienda italiana, segnalata come pioniera delle etichette (ingannevoli) sul benessere animale in una puntata di "Indovina chi viene a cena", chiede un risarcimento danni di diversi milioni di euro. Cosa emerge dall'inchiesta esattamente?

La giornalista Sabrina Giannini è stata citata per danni da una nota azienda che produce latte e derivati, per la puntata di “Indovina chi viene a cena” dal titolo Delicatessen, andata in onda in prima serata su Rai 3 nell’aprile dell’anno scorso. Il tema dell’inchiesta è il presunto “benessere animale” che campeggia sulle etichette di decine di alimenti come valore aggiunto della produzione, ma che in realtà non esiste. L’azienda, citata durante il servizio come “pioniera” di questa novità, ha chiesto un risarcimento di diversi milioni di euro per compensare i danni di immagine da attribuire a questo servizio; la prima udienza in tribunale avrà luogo il prossimo 10 maggio.

Ormai da qualche anno sono sempre più frequenti indicazioni ed etichette che riportano su carne, salumi, latte e derivati la dicitura “benessere animale”; ma cosa significano esattamente? Siamo di fronte a un’indicazione che certifica un miglioramento effettivo delle condizioni degli animali negli allevamenti? Come dimostra il servizio di Giannini, ovviamente, no. In Italia qualsiasi allevamento, di qualsiasi tipo, può richiedere questa certificazione volontaria. Ciò significa che un hamburger che deriva da un vitello allevato con metodi intensivi, nell’assoluta violazione dell’etologia e delle necessità minime dell’animale, può riportare in etichetta la dicitura “benessere animale”, al pari di quello proveniente da un allevamento in cui gli animali vivono allo stato brado, in buone condizioni generali.

Il sospetto è quindi il fatto che si tratti di una pura operazione di marketing, pensata per dirottare i consumatori – sempre più attenti alla questione del benessere negli allevamenti – verso l’acquisto dei prodotti tradizionali, facendo credere che ci sia stato un cambiamento. Le immagini del servizio dimostrano chiaramente come qualsiasi allevamento, spesso anche al limite rispetto alla normativa vigente, possa certificarsi. Per gli allevamenti di bovini, per esempio, è sufficiente aggiungere qualche abbeveratoio in più per dichiarare una particolare attenzione per il benessere degli animali.

Di seguito il post e le parole di Sabrina Giannini sulla questione:

 

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Ad oggi non esiste una normativa che regoli l’accesso a questa certificazione e le conseguenze sono evidenti: i consumatori acquistano carne e derivati, oppure latte e formaggi, credendo a un miglioramento delle condizioni di vita negli allevamenti, che in realtà non esiste. Negli allevamenti intensivi la questione del benessere animale emerge come necessità, nel momento in cui è utile a chi produce: gli animali “felici” stanno bene, e per questo producono di più e meglio. Rispettare gli animali è “conveniente dal punto di vista commerciale” e non ha quasi mai niente a che vedere con una questione etica. Un rispetto che in ogni caso non c’è, o c’è molto raramente, e che non può e non deve rappresentare un’attrattiva ingannevole per i consumatori.

Dal nostro punto di vista, il cuore della questione non è quanto grandi siano le gabbie in cui vengono rinchiuse le scrofe in gestazione o quanto sia “umano” il metodo di macellazione scelto per togliere la vita ai vitelli. Bisogna capire che il concetto di allevamento (intensivo e non) non può coincidere con quello di benessere animale. La privazione della libertà e lo sfruttamento – anche laddove non ci siano situazioni di illegalità – sono alla base del sistema di allevamento e questo è già di per sé sufficiente per far venir meno il concetto di “benessere”. Nessuna legge interviene per mettere in discussione lo status quo che vige all’interno di questa industria: miliardi di esseri senzienti continuano a essere considerati “macchine da produzione” al servizio dell’uomo, quello che si cerca di modificare è piuttosto la percezione che il consumatore ha di questo sfruttamento.

Sabrina Giannini è, insieme ad altri giornalisti e divulgatori, una delle poche voci che portano questo problema in televisione. La tv di Stato ha, dal nostro punto di vista, l’obbligo morale di portare alla luce quello che il settore zootecnico cerca di nascondere, per permettere ai consumatori di fare scelte consapevoli.

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