Il concetto di “benessere animale” è ormai a tutti gli effetti un driver in grado di guidare e influenzare le scelte dei consumatori; non è un caso, quindi, che da qualche anno le aziende che producono alimenti di origine animale puntino proprio su questo aspetto per catturare l’attenzione dei potenziali clienti. Indicare a chiare lettere sulle confezioni di questi prodotti diciture come “da allevamento a terra” nel caso delle uova o “da allevamento al pascolo” nel caso di carne e derivati o latticini sono ormai una vera e propria strategia di marketing adottata da un numero sempre maggiore di aziende, segno evidente di come la sensibilità dei consumatori su questo punto stia cambiando, sebbene molto lentamente.
Il mercato plant-based avanza
Se da un lato moltissimi consumatori si affidano proprio a questi claim per proseguire sulla strada di acquisti più “etici”, d’altra parte è innegabile che sempre più persone abbandonino gli alimenti di origine animale in favore di alternative plant-based, anche per una questione etica. Secondo i dati Eurispes 2020 è “veg” l’8,9% della popolazione italiana, e una fetta consistente di chi ha intrapreso questa strada dichiara di averlo fatto per l’amore e il rispetto nei confronti del mondo animale (22,2%). Calano i consumi di derivati animali e si amplia il mercato delle alternative vegetali alla carne, tanto che secondo le previsioni il valore di questo mercato crescerà di 3,17 miliardi di dollari entro il 2024.
Facciamo il punto con Simone Montuschi
Ecco allora che l’industria della carne corre ai ripari, toccando anche le corde molto sensibili del benessere animale all’interno degli allevamenti intensivi: il punto di vista della maggioranza della popolazione su questo argomento è rappresentato ad esempio dall’articolo “Allevamenti lager? Visita virtuale all’interno di un capannone con migliaia di animali dove il benessere è la prima regola”, pubblicato di recente da “Il Fatto Alimentare”. Una visione “mainstream”, che però non risulta condivisibile da chi ha scelto invece la strada della tutela degli animali al di là del concetto di benessere negli allevamenti. Noi di Osservatorio VEGANOK abbiamo discusso di questa problematica con Simone Montuschi (in foto), presidente e responsabile dei rapporti con i media dell’associazione Essere Animali, che da oltre 10 anni si occupa di rendere pubblica la situazione in cui vivono milioni di animali all’interno degli allevamenti intensivi italiani.
Partiamo dall’inizio: l’articolo de “Il Fatto Alimentare” parte affermando che “Il mercato avicolo da molti anni è anche quello più attento al benessere animale e alla ricerca di ottimizzazione per ridurre l’impatto sul pianeta”. Vorremmo conoscere il tuo punto di vista come presidente di Essere Animali.
Dal nostro punto di vista parlare di un capannone in cui sono stipati “migliaia di animali” e insieme di benessere animale è un ossimoro che non può stare in piedi; è risaputo che in questo tipo di strutture la prima cosa a venire meno sia proprio il benessere degli animali. Non solo mancano gli spazi, ma diventa impossibile per l’allevatore controllare un numero così elevato di animali, specialmente negli allevamenti di polli che in Italia sono strutture intensive al 99%. Terrei a sottolineare che le nostre non sono “incursioni notturne rocambolesche”, come vengono definite nell’articolo; le nostre indagini sono diffuse anche dai media nazionali e sono condotte in modo da poter arrivare a una denuncia presso le autorità competenti.
“Perché un allevatore non si dovrebbe occupare del benessere dei suoi animali?” si chiede nell’articolo, eppure è proprio ciò che dimostrano le vostre investigazioni sotto copertura. Perché accade, secondo voi?
Perché siamo di fronte ai grandi numeri, che è proprio la tipicità degli allevamenti intensivi: il guadagno per gli allevatori è dato dal numero degli animali allevati e la sofferenza del singolo individuo non viene presa in considerazione.
Che cosa possiamo dire rispetto alle leggi in vigore nel nostro Paese a tutela degli animali negli allevamenti?
Anche se le leggi vengono rispettate siamo di fronte comunque a standard bassissimi, sia dal punto di vista etico che per la salute umana. Oggi come oggi negli allevamenti sono rinchiusi animali selezionati geneticamente per avere un petto più grosso e crescere più velocemente, per fare fronte alle richieste di mercato. Inutile dire che questa selezione genetica è perfettamente legale e che comporta grandi sofferenze agli animali, che spesso hanno problemi di deambulazione e muoiono di fame perché impossibilitati a raggiungere il mangime.
Dal punto di vista sanitario, invece, non sono gli animalisti ma la comunità scientifica a sottolineare come siano soprattutto gli allevamenti avicoli a rappresentare un grande rischio per la salute pubblica, dal momento che facilitano in maniera allarmante la diffusione di virus che possono colpire anche l’uomo (pensiamo, per esempio, all’influenza aviaria di qualche anno fa). Se i virus trovano una popolazione di animali con una base genetica limitata, che vivono in sovraffollamento come nel caso di questo tipo di allevamenti, trovano un terreno fertile per diffondersi. Oltre a questo, ricordiamo anche il problema dell’antibiotico-resistenza, dovuta all’impiego profilattico di antibiotici, somministrati anche negli animali sani a scopo preventivo per evitare la diffusione di eventuali patologie e abbassare il livello di mortalità. Il nostro paese è il secondo in Europa per uso di antibiotici e si stima che il 70% siano destinati proprio agli animali rinchiusi negli allevamenti. Questo uso indiscriminato di antibiotici, però, è denunciato dalla comunità scientifica come pericoloso anche per l’uomo, tanto che a partire da gennaio 2022 sarà vietato.
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Finora abbiamo parlato di allevamenti avicoli, ma secondo voi ci sono allevamenti “migliori” e “peggiori” in termini di maltrattamento, in base alle specie allevate?
Noi abbiamo visto di tutto, gli animali “da reddito” sono trattati in generale come oggetti. Forse si nota una minore sensibilità verso i polli che verso altri animali, più che altro per via delle dimensioni: è più facile lanciare un pollo contro un muro piuttosto che un bovino, di conseguenza questo tipo di trattamento è riservato solo ai polli. Purtroppo però abbiamo visto operatori dare calci e martellate in testa ai suini, o picchiare vitelli, quindi parlare di trattamenti migliori o peggiori è impossibile.
Nonostante questo, però, da qualche tempo le aziende che producono alimenti di origine animale puntano sempre più sul concetto di “benessere animale”: qual è il pensiero della vostra associazione su questo punto?
Le aziende corrono ai ripari con etichette fuorvianti perché si sono accorte che i consumatori danno giustamente importanza all’aspetto dell’allevamento, pur non avendo magari ancora raggiunto una consapevolezza completa su cosa comporti il mangiare carne. Queste etichette però non dicono assolutamente niente sulla condizione gli animali, il concetto di “benessere” è molto vago.
A proposito di questo, qual è la posizione della vostra associazione rispetto alla possibilità di far coincidere l’allevamento con il benessere animale?
Il nostro obiettivo non è solo ottenere il rispetto delle leggi e quindi il “benessere” degli animali, vogliamo andare oltre: la mission della nostra associazione è sul lungo periodo ed è riuscire a ottenere un “mondo vegan”, vogliamo ottenere una società in cui lo sfruttamento animale in ogni sua forma sia abolito. Chiaramente siamo consapevoli che si tratti di un traguardo molto difficile da raggiungere, viviamo in una società in cui lo sfruttamento animale è radicato praticamente da sempre, e sappiamo che potrebbero volerci decenni prima di avvicinarci alla meta. Per questo ci concentriamo anche su obiettivi più a breve termine e più facilmente raggiungibili adesso, per costruire le basi di un futuro diverso.
C’è chi, nonostante decine di video di inchiesta che testimoniano maltrattamenti e abusi, continua a sostenere che queste situazioni rimangano un’eccezione: è la verità?
Bisogna parlare di percentuali: se parliamo del numero di allevamenti che Essere Animali ha visitato in questi anni, rispetto al numero totale di quelli che si trovano sul territorio italiano, ovviamente è molto basso. Il punto però è che tutte le volte che noi abbiamo realizzato indagini negli allevamenti – scelti quasi sempre a caso e qualche volta dopo segnalazioni da parte di abitanti della zona o lavoratori – abbiamo riscontrato questo tipo di situazione: qui la percentuale è quasi del 100%. O siamo veramente sfortunati noi ad aver trovato solo “mele marce”, o la situazione è molto più grave di come viene presentata.
Di recente Essere Animali ha pubblicato un report sulla zootecnia in Italia, dal quale emerge che negli ultimi 10 anni abbiamo assistito a un cambiamento nei consumi in favore delle alternative vegetali. Secondo voi è dovuto anche al vostro lavoro di sensibilizzazione?
Non sappiamo quanto, ma sicuramente anche in minima parte la diffusione di un certo tipo di immagini ha contribuito a indirizzare le scelte dei consumatori verso le alternative plant-based. Crediamo però che questa situazione sia il risultato della somma di più fattori, tra i quali anche le problematiche ambientali legate alla produzione di carne e derivati, e gli aspetti salutistici legati al consumo di alimenti di origine animale.
Qual è invece il pensiero della vostra associazione rispetto alla “carne coltivata“, che potrebbe presto rivoluzionare completamente il mercato alimentare globale?
Bisognerebbe valutare il coinvolgimento degli animali in questa produzione e il grado di sofferenza inflitto. Non diciamo di no a priori a questa alternativa, ma ci chiediamo se gli alimenti vegetali che abbiamo già a disposizione non siano sufficienti e se ci sia davvero bisogno di una carne creata in laboratorio.
Per approfondire questo argomento:
- Zootecnia: meno carne rossa e boom delle bevande vegetali; la fotografia del periodo 2010-2019 in Italia
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Arrivano le uova che risparmiano i pulcini maschi. Sono “etiche”?
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