Al professor Richard Primack, prima della presentazione del suo libro a Camerino abbiamo rivolto, tramite il professor Franco Pedrotti, alcune domande, sui problemi più gravi e le sfide che la Biologia si trova ad affrontare.
Professor Primack, la biologia della conservazione cos\’è esattamente?
Tale biologia riguarda la conservazione della natura e delle sue risorse. Si è sviluppata come nuova disciplina scientifica a seguito della constatazione che popolazioni di specie selvatiche e intere comunità biologiche (biocenosi) sono sempre più minacciate dalle attività umane. Anzi, in molti casi la loro distruzione è ormai già avvenuta. Spesso le attività umane sono il più importante fattore che causa la distribuzione e l\’abbondanza di specie animali e vegetali, ma a volta diventa anche causa della loro distruzione. Nei confronti della componente fisica dell\’ambiente l\’uomo si configura quasi come una forza geologica.
Si tratta di una scienza interdisciplinare?
I biologi della conservazione studiano la diversità della vita, come gli altri biologi in senso lato (biologi marini, botanici, ecologi, genetisti, zoologi, ecc.) e difatti provengono da tutti i settori delle scienze della vita e della natura; tuttavia essi studiano anche i fattori di rischio a cui questa diversità è esposta a causa delle attività umane e le azioni da intraprendere per salvaguardare specie e habitat. Il successo delle loro ricerche è legato non solo all\’acquisizione di nuove conoscenze, che è comunque alla base di qualsiasi scienza, ma anche all\’applicazione di tali conoscenze a problemi pratici e alla loro risoluzione.
Sono biologi che interagiscono anche con la politica?
Certo, lavorando alla gestione delle aree naturali protette e in generale dell\’ambiente, possono affiancare i politici nelle scelte di governo del territorio e nell\’emanazione delle apposite leggi. Possono anche collaborare con economisti e filosofi per sviluppare nuove argomentazioni economiche ed etiche per la protezione di specie e habitat. Infine il loro lavoro si può affiancare a quello di economisti, sociologi e di coloro che collaborano con i governi locali per attuare nelle aree protette forme di sviluppo rurale che consentano alle popolazioni ivi residenti di trarre benefici dall\’area protetta senza danneggiare né le specie né i loro habitat.
Si discute molto sui cambiamenti climatici globali. Ma l\’opinione pubblica sembra ancora restia a credere che essi siano una realtà.
Il cambiamento climatico è una realtà e coloro che si occupano di conservazione della natura devono necessariamente tenerla presente. Le prove più recenti (serie storiche di dati climatici, scioglimento accelerato dei ghiacciai) mostrano chiaramente che la Terra sta diventando più calda. Le risposte delle specie animali e vegetali a questi cambiamenti sono già evidenti: gli uccelli anticipano la migrazione e la riproduzione e le piante fioriscono prima rispetto qualche decennio fa. In seguito al riscaldamento, molte specie rare ad areale ristretto o addirittura puntiforme nonché specie con scarsa capacità migratoria non saranno in grado di sopravvivere; è quindi necessario individuare le strategie per favorirne la migrazione naturale oppure per spostarle artificialmente. Ma i problemi legati al cambiamento climatico nei confronti di specie e biocenosi non devono distogliere l\’attenzione dal fatto che attulamente la principale causa della loro scomparsa è la distruzione dell\’habitat da parte dell\’uomo.
Qual è il ruolo delle aree protette per il futuro dell\’ambiente?
Le aree protette sono lo strumento più efficace che abbiamo per conservare la diversità della vita, ma solo a patto che siano gestite correttamente e tenendo sempre presentala loro finalità primaria, che è appunto la conservazione della biodiversità.
Come conciliare nelle aree protette la salvaguardia di specie (nel Trentino abbiamo l\’esempio dell\’orso) con lo sviluppo delle popolazioni locali?
Soprattutto in Europa, il territorio delle aree protette è spesso abitato. Qui è dunque necessario trovare un equilibrio tra l\’uso delle risorse naturali e la tutela ambientale. Il raggiungimento di questo equilibrio rappresenta una grande sfida per coloro che si occupano di conservazione e richiede uno sforzo multidisciplinare da parte di politici, gestori delle aree protette, sociologi, economisti, conservazionisti e, non ultimo, popolazioni locali.
E il turismo, è compatibile?
Il turismo può essere un fattore di sviluppo economico a condizione che non arrechi danni a ciò per cui l\’area protetta è stata istituita: specie, biocenosi ed ecosistemi. Le azioni che, in nome del turismo, alterano in modo irreversibile gli habitat delle aree protette sono da evitare. Oltre al turismo, l\’educazione ambientale realizzata nei parchi e nelle riserve può essere un\’importante fonte di entrate nonché di diffusione della cultura conservazionista. La conservazione delle risorse naturali deve però avvenire non solo nelle aree protette ma anche al di fuori di esse: è qui che molte specie selvatiche continuano a vivere, e soprattutto vive la maggior parte della popolazione umana. I vincoli per la protezione delle acque e per la qualità dell\’aria proteggono contemporaneamente la salute dell\’ambiente e la salute dell\’uomo.
Per la biodiversità occorre agire a livello locale o globale?
Sia a livello locale che globale. Dobbiamo lavorare con le persone a livello locale perché è qui che esiste la diversità della vita ed è qui che le persone vivono, operano, interagiscono. In molti casi, però, le forze che distruggono l\’ambiente e le relative soluzioni sono internazionali. Per esempio, la diffusione di inquinanti nel Mediterraneo è un grave problema internazionale. I cambiamenti climatici sono un altro problema che richiede azioni coordinate a scala internazionale. Ugualmente, il commercio di specie rare e a rischio di estinzione. Bisogna poi entrare in un\’ottica di lungo periodo e quindi agire nell\’immediato.
Come possono istituzioni universitarie e Scuole di specializzazione (per esempio quella di Camerino) contribuire alla biologia della conservazione?
«Le Università hanno un ruolo cruciale nel formare le nuove generazioni di biologi della conservazione. In molti casi la formazione si focalizza esclusivamente su singole discipline accademiche ristrette e non si riconosce l\’importanza di formare persone che dopo l\’Università possano già applicare le conoscenze acquisite. I programmi di studio centrati sulla biologia della conservazione possono aiutare a cambiare questa prassi, purché alla base della formazione vi sia sempre un alto livello di conoscenza e una solida cultura scientifica. Le stesse Università possono sviluppare programmi di ricerca coinvolgendo non solo studenti e ricercatori ma anche liberi professionisti che si occupano di ambiente.
Come agire nella pratica?
I biologi della conservazione devono lavorare con i gestori dei parchi e delle riserve, con le pubbliche amministrazioni, con le società e le aziende private, con le popolazioni locali, per verificare lo stato di salute dell\’ambiente. Di qua devono nascere le linee guida e le conseguenti scelte politiche per la conservazione del patrimonio naturale.
Articolo di Franco De Battaglia
Tratto da: www.altoadige.quotidianiespresso.it
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