Dalla caccia alla scienza (3/3)

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Terza parte 4. Come uccide la caccia Non si deve pensare che gli animali colpiti dagli spari (in Italia circa cento milioni ogni anno) siano le sole vittime della caccia. Al contrario, l’impatto delle doppiette è molto più ampio, e coinvolge intere popolazioni animali, a qualunque specie appartengano. Basti pensare a quello che succede in […]

Terza parte

4. Come uccide la caccia

Non si deve pensare che gli animali colpiti dagli spari (in Italia circa cento milioni ogni anno) siano le sole vittime della caccia. Al contrario, l’impatto delle doppiette è molto più ampio, e coinvolge intere popolazioni animali, a qualunque specie appartengano.

Basti pensare a quello che succede in una normale giornata di caccia: al primo sparo tutti gli animali fuggono per lo spavento e si nascondono, restando nascosti anche per molte ore. Ma moltissimi animali, soprattutto d’inverno, hanno bisogno di cercare cibo praticamente senza interruzioni; la caccia impedisce loro di mangiare. In casi estremi ma non rari, la conseguenza è la morte per fame; ma anche gli animali che in qualche modo riescono a sopravvivere rimangono più deboli: le popolazioni animali che vivono nelle regioni in cui la caccia è permessa sono più soggette a malattie epidemiche, e meno capaci di riprodursi. Altrettanto devastanti sono le conseguenze psicologiche: è noto che alci e caprioli muoiono anche di crepacuore durante l’inseguimento.

Un altro fattore di distruzione legato alla caccia è l’inquinamento da piombo. Questo metallo velenosissimo contamina le falde acquifere e i prodotti agricoli, e avvelena in massa gli animali selvatici. Si calcola che in Italia i cacciatori sparino ogni anno circa 700 milioni di cartucce diffondendo così nell’ambiente circa venticinquemila tonnellate all’anno di una delle sostanze più tossiche della Terra, che, sotto forma di piccolissimi pallini, viene a mescolarsi al cibo consumato dagli animali. L’avvelenamento che ne consegue è lento e atroce. Nello stomaco della selvaggina uccisa vengono comunemente ritrovati pallini di piombo: da questo si può capire che la diffusione dell’avvelenamento da piombo è altissima e, visto che il piombo disperso nell’ambiente aumenta ad ogni stagione di caccia e non viene mai smaltito, è destinata certamente ad aumentare.

5. La beffa del ripopolamento

Di fronte a questo scenario di distruzione è naturale porsi una domanda: Come possono le popolazioni animali resistere a questa guerra su tutti i fronti? Come fanno a esistere ancora animali vivi da cacciare?

La risposta è che non ne esistono praticamente più. Tuttavia gli enti pubblici vengono incontro ogni anno alla smania di uccidere dei cacciatori con massicce campagne di ripopolamento che coinvolgono decine di milioni di animali, hanno costi molto ingenti e sono anche finanziate con denaro pubblico. Ma l’impatto negativo del ripopolamento non è soltanto economico: gli animali da ripopolamento, a causa delle condizioni in cui vengono allevati, sono portatori di malattie diffuse negli allevamenti e sconosciute presso le popolazioni selvatiche, che quindi cadono spesso vittime di epidemie. Inoltre, data la difficoltà di far riprodurre gli animali selvatici in cattività, i ripopolamenti tendono ad essere effettuati con specie simili ma non identiche a quelle naturalmente presenti in un ecosistema, la maggior parte delle quali sono il risultato di ibridazioni tra specie selvatiche e domestiche. Il ripopolamento rappresenta dunque una fonte devastante di inquinamento del patrimonio genetico delle specie selvatiche e in genere una minaccia per l’ambiente. Uno dei casi più seri è quello del cinghiale: il cinghiale da ripopolamento è un ibrido tra il cinghiale e il maiale Large White, un animale assai più grande e prolifico del cinghiale selvatico. Per quanto queste caratteristiche risultino gratificanti per i cacciatori, che possono contare su una preda di dimensioni eccezionali, i cinghiali da ripopolamento, con i dieci-dodici piccoli che generano in ogni cucciolata, causano danni rilevanti ad attività economiche anche molto pregiate, come la coltivazione dei tartufi; ovviamente questi danni vengono usati dalle lobbies venatorie per sostenere la tesi della “nocività” degli animali selvatici e quindi la necessità della caccia, che porta inevitabilmente con sé la necessità di nuovi e sempre più massicci ripopolamenti.

6, Conclusioni

Si sente spesso dire che la caccia, purché condotta secondo determinate regole, è compatibile con una corretta conservazione delle specie, degli ecosistemi e dell’ambiente, o addirittura necessaria per l’eliminazione degli esemplari “in eccesso”. Questo è completamente falso. La caccia è un massacro operato in maniera casuale e indiscriminata che ha conseguenze devastanti per i singoli animali, uccisi, feriti a morte, presi nelle trappole, avvelenati con esche o intossicati dal piombo, per le popolazioni selvatiche, che si assottigliano sempre di più, e per gli ecosistemi, i cui equilibri vengono sovvertiti dall’immissione di specie estranee e dalla diffusione di materiali nocivi. Per la stragrande maggioranza delle specie cacciabili (quelle non incluse nel “carniere”) le autorità competenti non effettuano alcun calcolo scientifico del prelevamento da operare; di conseguenza la politica del nostro paese in materia di caccia viene decisa in pratica dai rappresentanti delle lobbies venatorie. Abbiamo visto che le teorie e le norme che avrebbero lo scopo di conciliare le esigenze della tutela delle specie animali e dell’ambiente e la voglia di uccidere dei cacciatori sono insostenibili o inapplicabili e che pertanto il concetto di caccia eco-sostenibile è privo di valore scientifico.

Massimo Tettamanti


www.cacciailcacciatore.org


La versione integrale di questo studio è nei

Laboratori della Casa di Gondrano