La deforestazione – e, quindi, l’uso del suolo – e l’estinzione delle specie animali sono in qualche modo collegate alla diffusione delle pandemie, come quella da Covid-19? Secondo i ricercatori e autori di uno studio pubblicato di recente sulla rivista scientifica Nature, sì. Parliamo di un problema paventato da tempo, che ha trovato conferma di recente; il motivo sarebbe legato al tipo di animali colpiti dall’estinzione: mentre alcune specie si estinguono, quelle che tendono a sopravvivere e prosperare – ratti e pipistrelli, per esempio – hanno maggiori probabilità di ospitare agenti patogeni potenzialmente pericolosi anche per l’uomo.
Lo studio è stato effettuato su oltre 6 mila comunità ecologiche e conferma il fatto che laddove si trovi un’ingerenza dell’uomo tale da minacciare la biodiversità di un luogo, lì tendono ad accendersi focolai di malattie potenzialmente anche molto pericolose, anche se non è possibile prevederne lo scoppio.
Quello che è interessante sottolineare è il focus che gli studiosi pongono sui metodi di prevenzione: “La maggior parte degli sforzi per prevenire la diffusione di nuove malattie tendono a concentrarsi sullo sviluppo di vaccini, sulla diagnosi precoce e sul contenimento, ma è come trattare i sintomi senza affrontare la causa sottostante“, afferma Peter Daszak, zoologo presso l’organizzazione non governativa EcoHealth Alliance di New York. Inoltre, afferma Daszak, è stata proprio la pandemia da Covid-19 a chiarire la necessità di indagare sul ruolo della biodiversità nella trasmissione degli agenti patogeni.
Espansione umana, perdita di biodiversità e malattie
Il punto del problema è da ricercarsi nell’espansione umana indiscriminata, nell’invasione di territori altrimenti “rurali” e nel contatto inevitabile con le specie animali che abitano queste zone: secondo gli esperti, se si ha una perdita di biodiversità, ci si trova di fronte a poche specie in sostituzione di molte – e queste specie tendono a essere quelle che ospitano agenti patogeni che possono trasmettersi all’uomo. In particolare, gli esperti hanno scoperto che le popolazioni di specie note per ospitare malattie trasmissibili all’uomo – inclusi 143 mammiferi come pipistrelli, roditori e vari primati – aumentavano man mano che il paesaggio cambiava da naturale a urbano e in generale la biodiversità diminuiva.
Il nodo nevralgico della questione, dunque, è fermare la deforestazione – il che ovviamente ha tutto a che fare anche con la questione ambientale che affligge il pianeta ormai da decenni. Ma non è tutto, perché gli scienziati suggeriscono come possibili soluzioni al problema della diffusione di malattie anche di “frenare il commercio di animali selvatici – un’industria del valore di circa 20 miliardi di dollari all’anno in Cina, dove sono comparse le prime infezioni da Coronavirus. Ma Daszak afferma che l’industria è solo un pezzo di un puzzle più ampio che coinvolge la caccia, l’allevamento, l’uso del suolo e l’ecologia”.
Leggi anche: Wuhan: stop al consumo di animali selvatici per almeno 5 anni
Meno carne per salvare il pianeta
Parlando di sfruttamento del suolo e di deforestazione, è impossibile non fare riferimento a un altro studio, pubblicato lo scorso anno su Nature: in questo caso il focus del discorso è il consumo di carne e l’impatto che questa abitudine ha sul nostro pianeta. Si tratta di un report commissionato dalle Nazioni Unite, che sottolinea quello che è ormai già tristemente noto da tempo: gli allevamenti intensivi minacciano seriamente il Pianeta e solo il passaggio a una dieta plant-based può invertire questa drammatica situazione. “Non vogliamo dire alla gente cosa mangiare – afferma Hans-Otto Pörtner, un ecologo che co-presiede il gruppo di lavoro che si occupato dello studio – Ma sarebbe davvero vantaggioso, sia per il clima che per la salute umana, se le persone in molti paesi ricchi consumassero meno carne e se la politica creasse incentivi adeguati a tal fine“.
L’allevamento intensivo è legato non solo all’emissione di sostanze altamente inquinanti, ma anche alla deforestazione necessaria per fare spazio agli allevamenti. Secondo gli esperti, di questo passo la deforestazione potrebbe trasformare molti territori in zone desertiche, rilasciando – senza più il contributo degli alberi ad assorbire anidride carbonica – più di 50 miliardi di tonnellate di carbonio nell’atmosfera in 30-50 anni. L’immagine in basso mostra l’impatto di varie tipologie di diete contenenti derivati animali: è evidente come una dieta 100% vegetale risulti quella migliore dal punto di vista dell’impatto ambientale.
Per approfondire, leggi anche: Quanto “pesa” la carne sulla salute umana e sull’ambiente? Rispondono gli studiosi dell’Università di Oxford
L’attenzione all’emissione di gas inquinanti è troppo spesso legata all’uso di combustibili fossili nei trasporti o per produrre energia, trascurando invece l’importantissima questione dell’inquinamento collegato alla deforestazione, a sua volta legata anche alla produzione alimentare. Non mangiare carne e derivati è dunque una scelta legata al futuro del pianeta, in un momento in cui l’imperativo morale è quello della ricerca di maggiore sostenibilità.
Leggi anche: Sistema economico e cambiamento climatico: è ora di agire. La lettera aperta degli scienziati

Scegli i prodotti certificati VEGANOK e sostieni così la libera informazione!