False Notizie di Guerra

Promiseland -

L’immagine della guerra non è la guerra “Far sapere è spesso più importante di far ignorare”. Così teorizzava nell’antica Cina Sun Tzu, esperto di arte militare. E questa pare essere la tecnica adottata dagli odierni strateghi, ai quali è ormai chiaro che i mass-media possono essere utilizzati come formidabili strumenti di propaganda, come cassa di […]

L’immagine della guerra non è la guerra

“Far sapere è spesso più importante di far ignorare”.
Così teorizzava nell’antica Cina Sun Tzu, esperto di arte militare. E questa pare essere la tecnica adottata dagli odierni strateghi, ai quali è ormai chiaro che i mass-media possono essere utilizzati come formidabili strumenti di propaganda, come cassa di risonanza delle decisioni prese al vertice. Alla censura si sostituisce così il “news management”, la gestione delle notizie, la “militarizzazione dell’informazione” – come denunciò anni fa il senatore statunitense William Fulbright -, la “manipolazione per inondazione”, come ha sagacemente stigmatizzato il fenomeno il giornalista italiano Claudio Fracassi, direttore del settimanale “Avvenimenti” e autore di due saggi illuminanti sulle dinamiche del rapporto tra potere e informazione, “Sotto la notizia niente” del 1994 e “Le notizie hanno le gambe corte” del 1996.

Già Napoleone Bonaparte aveva istituito un “Bureau de l’Opinion Publique”, un organismo di stampa e propaganda la cui denominazione ossimorica ben evidenzia il corto circuito tra il momento istituzionale-burocratico e la pretesa spontaneità dei movimenti d’opinione.

L’ingegneria del consenso, sviluppatasi in modo sistematico dagli anni Cinquanta in poi e applicata sia alla vendita di un dentifricio che alla demonizzazione di una potenza straniera, pare essere il volto più recente del sopruso e della sottomissione.
Agenzie di pubbliche relazioni – come la Ruder Finn che ha curato l’immagine dei governi di Croazia e Bosnia durante la recente guerra o la Hill & Knowlton, distintasi durante la Guerra del Golfo – “impacchettano” notizie, creano ad arte pseudo-eventi così da rendere sempre più autonoma la notizia rispetto al fatto, fino a ribaltarne il rapporto: la notizia è il fatto.

Ma come è possibile che i giornalisti si prestino a fare da eco di notizie prefabbricate? Non stiamo forse esagerando con la sindrome del Grande Fratello? Non sono forse stati dei giornalisti gli artefici della caduta del presidente Nixon dopo lo scandalo Watergate, non ha forse detto il generale Westmoreland che la guerra del Vietnam fu persa non sui campi di battaglia, ma per colpa della TV e dei giornali? «La svolta – disse il generale – ci fu con la battaglia del Tet. Militarmente la vincemmo noi, ma due giorni dopo il suo inizio Walter Cronkite annunciò in tv che avevamo perso, e quella diventò la verità».

Questa lettura della sconfitta è forse troppo semplicistica. Vero è che dopo il Vietnam i rapporti con i mezzi di informazione furono impostati non più sulla censura ma curati attraverso un’ipertrofica dose di informazioni filtrate, costruite, selezionate. L’imperativo era – nelle parole di Fracassi – “saziare la belva”.

Di false informazioni utilizzate per vincere una guerra è piena la storia: dal cavallo di Troia alla notizia non vera della partenza della flotta greca utilizzata dall’ateniese Temistocle per vincere contro Serse, alla finta ritirata di Napoleone ad Austerlitz, diffusa mediante falsi messaggi in codice tra gli ufficiali francesi. Ma fin qui la finzione ha come vittima il nemico. Diversa è la portata di quello che il russo Serghei Ciacotin ha chiamato in un suo libro “Lo stupro delle folle”. Stupro che divenne possibile con la diffusione su larga scala dei mezzi di comunicazione.

Il primo telegrafo meccanico fu messo in funzione in Francia nel 1793, al servizio della guerra, e il telegrafo elettrico, messo a punto nel 1837, ebbe un ruolo fondamentale nell’informazione giornalistica durante la guerra di Crimea e nella guerra di Secessione americana. Quella guerra fu anche il banco di prova per una politica di manipolazione delle notizie: il segretario alla Guerra, Edwin M. Stanton, interveniva direttamente sui dispacci, truccava i numeri delle perdite, alterava i resoconti delle battaglie.
Nel 1866 un cavo sottomarino collegò la rete telegrafica europea a quella americana, e l’avvenimento fu inaugurato non con un dispaccio militare – com’era consuetudine – ma con un messaggio giornalistico: il testo del discorso dell’imperatore Guglielmo dopo la vittoria di Sadowa. L’intreccio tra guerra e informazione trovava qui il suo atto di nascita ufficiale.

Durante la Prima guerra mondiale quasi tutti i paesi coinvolti crearono dei ministeri delle informazioni, con compiti distinti rispetto alla semplice propaganda. E’ interessante notare, per esempio, che il ministero delle informazioni inglese aveva a capo l’editore del “Daily Express”, e come dipendenti Rudyard Kipling e H.G.Wells.
Negli Stati Uniti venne creato il “Committee on Public Information”, composto dai segretari alla Marina e alla Guerra, dal titolare del Dipartimento di Stato e da un giornalista, George Creel, il cui obiettivo esplicito era «Vendere la guerra al pubblico americano».

La Germania del Kaiser continuava a sottovalutare i nuovi fattori che affiancavano ormai la strategia militare: il morale delle truppe nemiche, l’opinione pubblica interna e quella nemica.
Solo a guerra persa, i comandi militari tedeschi analizzarono la portata della propaganda alleata: «Il nemico ci ha vinto non con un corpo a corpo sul campo di battaglia, baionetta contro baionetta. No! Pessimi testi su poveri fogli malamente stampati hanno fatto venir meno il nostro braccio».

Il Terzo Reich sopperirà a questa mancanza con il potentissimo “Ministero della propaganda e dell’illustrazione del popolo”, creato da Joseph Goebbels con l’intento di “modellare gli spiriti”.
Dagli anni Venti, attraverso la radio, la comunicazione si fece più capillare e quotidiana, l’informazione entrava direttamente nelle case. Si stima che alla vigilia del secondo conflitto mondiale negli Stati Uniti vi fossero duecento apparecchi ogni mille abitanti, in Inghilterra e Germania circa centoventi e in Unione Sovietica una trentina. In Italia il primo giornale radio andò in onda nel 1929, e la radio fu subito utilizzata come strumento per creare consenso attorno al regime.

Il Ministero della cultura popolare (il famoso Minculpop) mandava quotidianamente “Ordini” ai direttori dei giornali, con indicazioni tassative sulle notizie da dare o da non dare.
Alcuni esempi: “Non pubblicare corrispondenze sui nostri bombardamenti in Africa Orientale” (7 dicembre 1935); “Ignorare completamente tutto quanto si riferisce all’inchiesta per l’uccisione dei fratelli Rosselli” (15 gennaio 1938); “Notare come il Duce non fosse stanco dopo quattro ore di trebbiatura” (4 luglio 1938).
E’ chiaro come l’intento fosse quello di manipolare l’opinione pubblica tacendo alcuni fatti sia di politica interna che estera, e lavorando sulla costruzione dell’immagine del duce.

Ma la radio fu anche usata in funzione antiautoritaria, come mostra il ruolo giocato da Radio Londra durante la seconda guerra mondiale, fondamentale sia per i messaggi in codice rivolti ai movimenti della Resistenza, sia per il potere di orientare la popolazione civile nei paesi occupati dai tedeschi.
La seconda guerra mondiale, comunque, e ancora la guerra di Corea, furono caratterizzate da una forte censura dei governi sulla stampa, censura che spesso veniva introiettata come autocensura, come adesione totale del giornalista al modello politico e ideologico del suo Paese.

Abbiamo già citato come la guerra del Vietnam abbia visto delle smagliature nel tessuto della censura, pur essendo iniziata con la diffusione acritica di una falsa notizia: l’attacco a un cacciatorpediniere statunitense da parte di unità siluranti nord-vietnamite nel Golfo del Tonchino, il 5 agosto 1964. Ma dopo la svolta del Tet la stampa cominciò a investigare anche sulla genesi del conflitto, finché nel 1971 il “New York Times”, nonostante i furibondi tentativi di Nixon per impedirlo, rese note le carte segrete del Pentagono, che rivelavano l’inganno perpetrato ai danni dell’opinione pubblica americana.

La “sindrome del Vietnam” divenne quindi l’ossessione di una superpotenza che mal digeriva una sconfitta militare, e la convinzione da parte del governo Usa di non aver saputo controllare e piegare ai suoi fini l’apparato dell’informazione. Così che, alla vigilia della Guerra del Golfo, le parole del presidente Bush furono “Non sarà un altro Vietnam”.

Infatti la Guerra del Golfo, come hanno acutamente evidenziato Jean Baudrillard nel libro ” La guerre du Golfe n’a pas eu lieu” e Claudio Fracassi ne “L’inganno del Golfo”, si basò su una sapiente regia che costruì un’illusione collettiva, la quale fece vittime sia tra i capi di governo (il re saudita Fahd fu convinto a ospitare l’operazione “Scudo nel deserto” con false fotografie satellitari) che tra l’opinione pubblica mondiale.

Gli specialisti della già citata Hill & Knowlton girarono a Hollywood falsi filmini amatoriali sul Kuwait liberato, fecero raccontare alla figlia adolescente dell’ambasciatore kuwaitiano presso le Nazioni Unite (assente da anni dal suo paese) di come i soldati iracheni toglievano la corrente alle incubatrici, impedirono che venissero visti i 200 mila iracheni uccisi, fecero recitare più volte ai marines la scena della riconquista dell’ambasciata americana a Kuwait City, facendo calare i soldati sui tetti dell’edificio quando la capitale era libera da due giorni.
D’altra parte molti giornalisti, salvo poi fare atto di pubblica contrizione, si prestarono senza troppo recalcitrare alla manipolazione, quando poi non ne furono gli artefici. Reporter della Cnn prelevarono da uno zoo e poi impeciarono il cormorano intriso di petrolio che commosse tutto il mondo, si fecero riprendere in studio bardati con maschere antigas senza che ci fosse alcun pericolo di contaminazione, mentre fotografi dell’agenzia Reuter misero in vendita fotografie scattate durante la guerra Iran-Iraq del 1983.

Durante la recente guerra nell’ex-Jugoslavia l’informazione si è messa spesso al servizio di odi etnici e nazionalisti, creando cliché semplicistici e manipolatori: i serbi oppressori, i croati fascisti, i musulmani indifesi o fondamentalisti.
E’ forse presto per valutare la portata della disinformazione in quelle regioni, soprattutto ora che la guerra vi si è riaccesa. L’apparente facilità di accesso a molte fonti può ingenerare l’illusione di avere un canale diretto con la realtà, ignorando che dietro ogni notizia che arriva a noi c’è un “gatekeeper”, un Caronte che decide cosa far traghettare. La risoluzione n. 59 dell’Onu afferma che “L’informazione è un diritto fondamentale dell’uomo e la pietra di paragone di tutte le libertà”.

Nell’era dell'”infotainment” (information+entertainment), dei video promozionali spacciati per notizie, c’è chi, come Baudrillard, grida allo “sterminio della realtà da parte dell’informazione”. Ma c’è anche chi non vuole credere che l’unica difesa sia quella della “pantofola”, lanciata contro un televisore indifferente.

Renata Tinini

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