ACCRA – Sulle bancarelle del Makola, il mercato all\’aperto nel centro di Accra, l\’invasione dei barattoli rossi si manifesta in piccole piramidi. Si vedono da lontano, fra tonnetti affumicati, lumache grandi come quaglie e peperoni piccoli come olive. Il marchio è scritto a lettere bianche: Salsa, o Ciro, oppure Fiammetta, o magari Obaapa, che per i ghanesi suona familiare. Tomato paste, recita l\’etichetta, cioè conserva di pomodoro. E dietro, su tutti: prodotto italiano. La confezione più piccola, settanta grammi, basta a due persone, per dar sapore alla tradizionale zuppa Groundnut o per dare colore alla carne. Costa 1000-1200 cedis, cioè poco più di 10 centesimi di euro. I pomodori freschi si vedono di meno, e costano 5-6000 cedis al chilo, circa 60-70 centesimi. In questi giorni non sembrano un gran che, pesti o troppo maturi come sono. I più belli, ammette la venditrice, vengono dal Burkina Faso.
In Ghana il sole non manca, e c\’è persino molta acqua. Eppure sulla tavola i pomodori locali non arrivano, mentre il concentrato italiano è dappertutto. A tentare di sbarrargli la strada c\’è il cinese Tomato Fun, o qualche prodotto turco, ma la gran parte del mercato è in mano ad aziende nostrane. La qualità è indiscussa, ma il successo arriva soprattutto dal prezzo basso. Perché in realtà nei barattolini rossi, assieme al pomodoro, c\’è la potenza economica dell\’Europa, concentrata in contributi enormi alla produzione, che nessun paese africano può permettersi.
Ancora negli anni Ottanta, nel Ghana le fabbriche di conserva erano tre. L\’ultimo a chiudere è stato lo stabilimento di Pwalugu, nella regione del nord-est. Nell\’89 un diktat del Fondo Monetario Internazionale ne aveva imposto allo Stato la privatizzazione. Era una misura di \”aggiustamento strutturale\”, e un acquirente straniero sembrava dietro l\’angolo. Ma l\’attesa dei 60 operai, dei 100 lavoratori stagionali e dei 10 mila coltivatori di pomodoro è stata inutile: nessun compratore si è fatto vivo, e nemmeno le avance di una multinazionale americana, nelle scorse settimane, sono andate a buon fine. Intanto i macchinari accumulano ruggine. E oggi il Ghana è il massimo importatore di concentrato di pomodoro dall\’Europa, con oltre 10 mila tonnellate l\’anno.
In mezzo al traffico di Accra sciami di venditori ambulanti approfittano degli ingorghi per proporre la merce agli automobilisti. Fra loro, alto e magrissimo, ce n\’è uno che potrebbe raccontare di Pwalugu. Prima faceva il contadino nel nord, e portava il suo raccolto alla \”Tomato cannery\”. Kwami Mensah (vuole che lo chiamiamo così, con l\’equivalente ghanese di Mario Rossi) adesso vende guinzagli, cercando di adocchiare le auto dei ricchi, quelli che si possono permettere un cane. Vive in una baracca nel sobborgo di Agbogbushia, almeno fino a quando le autorità cittadine non lo faranno sgombrare. Anche sua moglie Yaa vende agli incroci: arance, sbucciate solo della parte più esterna, il giallo, perché così basta farci un buchino per succhiarne il succo, quasi fossero una lattina autarchica e biodegradabile.
Kwami cerca la sopravvivenza nella capitale, mentre chi è rimasto nel nord vede quest\’obiettivo sempre più lontano. I prezzi di sementi e fertilizzanti continuano ad aumentare, mentre quelli dei pomodori restano bloccati o scendono. Ma visto che la fabbrica di conserva ha chiuso, i contadini hanno solo una scelta: vendere al prezzo corrente, o veder marcire il raccolto.
Per i pomodori freschi ghanesi, nella gara con i barattoli rossi Product of Italy il problema non è certo il costo del lavoro. I coltivatori sono in genere a salario minimo: appena aumentato, equivale a 9200 cedis al giorno, più o meno un euro, ovvero pochi centesimi sopra il livello che le istituzioni internazionali definiscono povertà estrema. La concorrenza, però, è viziata dai sussidi. Solo per le aziende che trattano pomodori, denunciano le organizzazioni non governative, l\’Unione europea arriva a spendere più di 370 milioni di euro l\’anno. E questo metodo vale per tutto il settore di agricoltura e allevamento.
Gli inglesi dell\’Economist hanno calcolato che per questi contributi ogni famiglia media europea paga 26 euro a settimana di tasse sugli alimenti. Un meccanismo esoso, che in più strangola le economie dei paesi più deboli. Senza sussidi, scrive il settimanale, l\’economia crescerebbe dovunque, e soprattutto nell\’Africa sub-sahariana. Nel 2001 il mondo sviluppato ha stanziato 300 miliardi di dollari per sostenere agricoltura e allevamento, da soli non competitivi nonostante la tecnologia: la somma spesa è circa sei volte quella destinata agli aiuti internazionali.
Quando all\’interno del Wto i paesi poveri hanno cercato di fermare questi sussidi, le nazioni ricche li hanno semplicemente ridipinti e chiamati con un altro nome. Così i discussi contributi all\’esportazione – spiega un esperto della Fao – sono diventati aiuti alla modernizzazione, oppure finanziamenti per l\’irrigazione, o magari sostegno per i problemi climatici. Insomma, la difesa del \”prezzo minimo\” sul mercato interno dell\’Unione continua a portare finanziamenti a pioggia. Così il contadino europeo ha le sue garanzie, e non si preoccupa che il costo reale sia rispecchiato nel prezzo finale dei suoi prodotti, anche se questi finiscono fuori dalla Ue. Secondo le Ong e i governi dei paesi \”deboli\”, in sostanza, l\’Europa fa un pesantissimo \”dumping\”, cioè vende sotto costo in mercati di per sé debolissimi.
Il pomodoro italiano, ovviamente, non è solo. A soffocare le economie dei paesi poveri ci sono il latte e il burro olandesi, il maiale tedesco, il manzo irlandese, lo zucchero e la farina francesi, in un elenco di produzioni che da sole non sarebbero redditizie. James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale, denuncia che \”una mucca in Europa riceve ogni giorno 2,5 dollari di sussidi, in Giappone arriva a 7 dollari al giorno, mentre un bimbo africano vive con meno di un dollaro al giorno\”. Insomma, in questo mercato le economie deboli sono strangolate: perché, dice Robert Aboagye-Mensan, segretario del locale Consiglio delle chiese, \”la concorrenza fra Ghana e occidente è come una gara fra antilope e giraffa per la frutta che sta nei rami più alti. Anche se si livella il terreno, non sarà mai concorrenza leale\”.
Articolo di Giampaolo Cadalanu
Tratto da: www.repubblica.it
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