Giornata internazionale dei diritti animali 2019: a che punto siamo?

Dal 1998 esiste una giornata internazionale per celebrare i diritti degli animali: quanta strada è stata fatta finora? Quanto ancora bisognerà lavorare perché a ogni essere senziente siano garantiti gli stessi diritti?

La sfida lanciata dai diritti animali è molto semplice: tratta gli animali con lo stesso rispetto con cui vorresti essere trattato tu. Un’idea genuinamente rivoluzionaria.

Jeremy Rifkin

Il 10 dicembre, ormai dal 1998, si celebra la giornata internazionale dei diritti animali: una data simbolica, che non a caso coincide con il giorno del 1948 in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite redasse la Dichiarazione Universale dei diritti Umani. Un documento di enorme importanza storica e sociale, che sancì il rispetto e la dignità per ogni essere umano, e che numerose associazioni animaliste tentano ormai da tempo di estendere anche agli animali non umani. Sì, perché viviamo ormai in un’epoca storica in cui il diritto alla libertà e alla vita, la giustizia e il rispetto non possono più riguardare esclusivamente l’uomo, ma devono diventare valori fondamentali per ogni singolo individuo, a prescindere dalla sua specie di appartenenza. Questo vale soprattutto per gli animali “da reddito”, ancora oggi vittime di soprusi e violenze inaccettabili.

Benessere animale: da dove siamo partiti e dove siamo arrivati

La questione del cosiddetto “benessere animale” negli allevamenti è articolata e complessa, ma se ne può tracciare un quadro storico piuttosto ben definito. Nel 1964 l’attivista e saggista britannica Ruth Harrison scrisse un libro che svelava al pubblico britannico le realtà aberranti degli allevamenti intensivi, scatenando un vero e proprio caos mediatico. Si rese necessario perfino un intervento da parte del governo inglese per calmare gli animi dei consumatori, in modo tale da proteggere il mercato dei prodotti di origine animale.

Il governo inglese commissionò poi un’indagine di settore condotta dal professore di zoologia Roger Brambell, secondo il quale negli allevamenti di bestiame britannici c’era “qualcosa che non andava” dal punto di vista etico. Gli animali erano costretti a vivere un’esistenza misera, priva non solo della libertà in sé  ma anche della facoltà di esprimere i comportamenti tipici della propria specie, in attesa di essere macellati per finire nei piatti dei consumatori. Si rese quindi necessario fissare delle condizioni minime di benessere, denominate da Brambell come cinque libertà fondamentali, e ancora oggi punto di riferimento per “misurare” il benessere degli animali da allevamento.

Le cinque libertà

Di cosa parliamo esattamente? Le cosiddette “cinque libertà” sono famose in ambito zootecnico e si possono così elencare:

  1. Libertà dalla sete, dalla fame e dalla cattiva nutrizione;
  2. Libertà di avere un ambiente fisico adeguato;
  3. Libertà dal dolore, dalle ferite, dalle malattie;
  4. Libertà di manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche normali;
  5. Libertà dalla paura e dal disagio.

L’inganno del benessere animale

Quelle sopra elencate sono necessità minime il cui soddisfacimento sta alla base di una vita vissuta dignitosamente, ma non definiscono certamente nulla che si possa considerare accettabile moralmente. Il rispetto di questi requisiti all’interno di un allevamento continua comunque a ledere il diritto fondamentale e imprescindibile alla libertà. Per questo motivo carne, latticini e uova “etici” non esistono, semplicemente perché non c’è niente di etico in un allevamento.

Tra i claim entusiastici legati al “benessere animale” e la realtà c’è un gap incolmabile. Si tratta di concetto che sembra più una strategia di marketing volta a fornire false rassicurazioni al consumatore di prodotti animali più che una linea guida. Ma qual è la vera questione? É possibile parlare di benessere quando l’animale diventa bene strumentale (a prescindere dal tipo di allevamento)? In fondo, di quale benessere si parla se l’animale diventa bene di consumo inserito all’interno di una catena di montaggio/smontaggio attraverso la quale sarà privato delle sue caratteristiche di soggetto e verrà ucciso tra atroci sofferenze?

Coloro che appoggiano la linea welferista del benessere forniscono l’illusione di una evoluzione etica mantenendo però inalterato lo status quo. Il welferismo agisce come “anestetico” perché calma l’indignazione sul tema dello sfruttamento animale diluendo le ragioni di chi invece vorrebbe che si considerasse il problema nella sua globalità. Non ci fornisce l’opportunità di fare passi avanti ma costituisce una vera e propria battuta d’arresto: toglie ossigeno alle vere ragioni etiche della necessaria liberazione animale suggerendo una visione miope della questione. Alla fine nessuno vince e nessuno si salva.

A questo si aggiunge, in ogni caso, che negli allevamenti intensivi odierni si è ben lontani dal rispettare anche questi requisiti minimi. Gabbie minuscole, impossibilità di movimento, percosse, malattie e sofferenza sono gli ostacoli che 70 miliardi di animali nel mondo sono costretti a superare quotidianamente prima di finire la propria breve vita in un macello.

Economia: il futuro è plant-based

Il raggiungimento di uno stato di diritto internazionale in cui gli animali “da reddito” non siano considerati meri oggetti, ma esseri senzienti liberi dai capricci dell’uomo, è quanto le associazioni animaliste di tutto il mondo si auspicano da sempre. Per quanto in maniera trasversale, negli ultimi anni anche l’economia globale sta avendo un ruolo fondamentale nel raggiungimento di questo scopo.

Per seguire le richieste di un mercato sempre più attento non solo alla questione ambientale ma anche a quella animale, moltissime aziende internazionali investono capitali nella produzione di alternative plant-based ai prodotti di origine animale. Secondo uno studio recente, il 90% dei consumatori di prodotti vegetali non è vegetariano né vegano, segno evidente di un cambiamento radicale alla base dell’economia globale.

Quello della conversione della produzione è un business ormai consolidato, e un esempio tra tutti è rappresentato dalla Giacomazzi Diary: nota come la più antica azienda nel settore lattiero-caseario operativa a ovest delle Rocky Mountains, sta abbandonando l’attività dopo oltre 125 anni per riaprire basando il proprio business sulla coltivazione di mandorle. Un macro esempio su tutti, ma che trova corrispettivi anche su scala minore un po’ in tutto il mondo, con aziende più o meno grandi che scelgono di ampliare la produzione aggiungendo referenze plant-based a quelle già in commercio. I grandi player del mercato sanno perfettamente che è il momento di puntare sulle proteine vegetali e questo non può che rappresentare il momento storico migliore anche per dire addio allo sfruttamento animale, in ogni sua forma.

VEGANOK lavora da sempre per far sì che questo momento arrivi il prima possibile, in modo che la giornata internazionale dei diritti degli animali smetta di essere il momento per ricordare quello che manca, e diventi l’occasione per celebrare i traguardi raggiunti.


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