L’8 giugno si celebra la Giornata Mondiale degli Oceani, un evento istituito nel 1992 dalle Nazioni Unite per puntare i riflettori sulla salvaguardia degli ecosistemi marini, e che in particolare ha l’obiettivo di proteggere il 30% del nostro “pianeta blu” entro il 2030. Un’iniziativa lodevole e certamente importantissima, ma che porta con sé una serie di riflessioni più profonde di quelle che di solito la riguardano, che purtroppo si concentrano su una parte del problema, tralasciandone altri ugualmente importanti.
Se è vero che è fondamentale la salvaguardia dei mari e delle specie che li abitano anche per la salvezza del Pianeta, è vero anche che la narrazione tende a glissare sulla salvaguardia delle specie in quanto tali. Esiste sempre un fondo di utilitarismo nell’idea che abbiamo della tutela degli oceani, sempre subordinata alla tutela di altro, che molto spesso coincide non solo con il Pianeta (e per fortuna, aggiungeremmo), ma anche con la possibilità dell’essere umano di continuare a sfruttare, impoverire e depredare agli stessi ritmi di sempre.
Intendiamoci: è sacrosanta la volontà di liberare i mari dalla plastica, di salvare la barriera corallina, di tutelare le specie più a rischio dalla pesca sconsiderata che viene portata avanti nel mondo. Anche perché, lo ricordiamo, i mari sono essenziali per la nostra sopravvivenza: basti pensare che producono la metà dell’ossigeno che respiriamo, mentre assorbono circa un terzo delle emissioni di gas inquinanti create dall’uomo. In più, dagli anni ’60, sono stati fondamentali per regolare la temperatura della Terra, assorbendo il calore in eccesso dovuto alle attività umane.
Eppure, c’è un aspetto di cui quasi nessuno sembra preoccuparsi, ed è la salvaguardia dei pesci in quanto tali: questi animali, come qualsiasi altro essere vivente, andrebbero tutelati a prescindere dalla loro utilità per la sopravvivenza dell’essere umano, ma si tratta di un aspetto quasi sempre lasciato in secondo (o ultimo) piano.
I mari sono al collasso, ma ai pesci chi ci pensa?
Seaspiracy, il documentario Netflix che punta i riflettori sulla conservazione degli oceani, fornisce una fotografia chiara del problema, con dati decisamente allarmanti: in pochi decenni l’essere umano ha distrutto il 29% delle specie ittiche commerciali; uccidiamo 650 mila animali marini ogni anno tra balene, delfini e foche, massacrando 73 milioni di squali all’anno (ben 30 mila ogni ora) per la loro carne o “per errore”. In Asia si consumano enormi quantità di zuppa di pinne di squalo, considerata un simbolo di ricchezza e un “elisir di lunga vita”.
Il risvolto etico della distruzione degli ambienti acquatici non è un’appendice che possiamo ignorare, una postilla di scarso valore; la distruzione di un numero incalcolabile di vite ogni anno – talmente alto che viene misurato a peso, non ad individuo – è un dato di fatto con il quale dobbiamo necessariamente scontrarci. Le stime (probabilmente al ribasso) parlano di un numero che oscilla tra i 40 e 140 miliardi di pesci allevati ogni anno, mentre quelli pescati globalmente sono tra gli 830 e i 2400 miliardi.
Anche se per alcune persone sono più lontani di altri animali dalla nostra sensibilità, anche i pesci provano dolore e difficilmente la legge li tutela, perché percepiti più come oggetti inanimati che come esseri senzienti da proteggere come individui. Oggi più che ogni altro giorno cogliamo l’occasione per ricordare che ognuno di noi può fare la differenza scegliendo di evitare il consumo di pesce, optando invece per le tantissime alternative vegetali. Una soluzione etica di per sé, ma che permetterebbe anche di affrontare la tematica stringente dell’inquinamento da plastica, se si tiene conto che le reti da pesca costituiscono il 48% della plastica dispersa nei nostri oceani e altri tipi di attrezzi da pesca rappresentano una buona parte del resto.

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