Il golpe alimentare: Supermercado Amigos

Promiseland -

Si chiamano Supermercados Amigos e a Portorico cercano di passare per amici dei clienti locali. Sono in realtà di proprietà della catena di grandi magazzini e supermercati più grande del mondo, la statunitense Wal-Mart. In Guatemala operano le catene di supermercati La Fragua e Maxi Bodega, nomi locali, ma di proprietà della multinazionale olandese dei […]

Si chiamano Supermercados Amigos e a Portorico cercano di passare per amici dei clienti locali. Sono in realtà di proprietà della catena di grandi magazzini e supermercati più grande del mondo, la statunitense Wal-Mart. In Guatemala operano le catene di supermercati La Fragua e Maxi Bodega, nomi locali, ma di proprietà della multinazionale olandese dei supermercati Ahold.

E le presenze di supermercati alimentari sono simili in ogni parte del Terzo Mondo, supermercati organizzati “all’occidentale”, nomi locali dietro i quali, quasi sempre, si nascondono le grandi catene che dominano la distribuzione alimentare. Il fenomeno è in rapidissima, quasi selvaggia, crescita. In centro America fino a sette-otto anni fa nei supermercati venivano comprati dal 10 al 20 per cento (a seconda dei paesi) dei prodotti alimentari consumati. Oggi questa percentuale è salita al 50-60%. E’ una trasformazione di modi di consumare, di relazioni sociali e, soprattutto, di modi di produrre in agricoltura, che nei paesi sviluppati è avvenuta nell’arco di mezzo secolo e in alcuni paesi, come l’Italia, ancora di più.

La conquista delle vendite di cibo mondiale da parte dei supermercati e la parallela, progressiva emarginazione dei venditori di strada, dei negozi familiari, delle botteghe di quartiere, ha seguito un percorso abbastanza preciso, come guidato da un piano preordinato. Diversi esperti del settore (Thomas Reardon, Julio A. Berdeguè, C. Peter Trimmer, e altri) in uno studio pubblicato recentemente nell’American Journal of Agricultural Economics hanno identificato le diverse ondate di “supermarketizzazione” che hanno travolto i paesi invia di sviluppo: una prima ondata ha colpito intorno a metà degli anni ’90 il Sudamerica, l’Asia orientale (esclusi Cina e Giappone),l’Europa centrale e il Sudafrica. La seconda ondata travolge parti dell’Asia sudorientale, l’America Centrale, il Messico e l’Europa sudorientale alla fine degli anni ’90.

La terza ondata è partita verso l’inizio degli anni 2000 ed è ancora in corso. Riguarda paesi come Nicaragua, Perù, Bolivia, Vietnam, Cina, India e Russia. In questi ultimi tre mercati giganteschi come potenziale di sviluppo, i tassi di crescita dei supermercati vanno dal 20 al 40 per cento all’anno. La quarta onda, infine è appena partita e dovrebbe riguardare alcuni paesi dell’Africa Sub-Sahariana (Kenya, Zambia e Zimbabwe). L’andamento della conquista è stato simile in tutti i casi: dalle grandi città a quelle medie e piccole, dalle élites economiche alla middle class fino ai poveri. E i protagonisti di questa vera e propria rivoluzione non sono catene di supermercati locali che crescono con l’aumento del reddito delle popolazioni di riferimento. Anche se esistono casi di successo di catene locali, la maggior parte della crescita è rappresentata dagli investimenti, dalle acquisizioni e dalla moltiplicazione dei punti vendita delle grandi catene multinazionali. Le 30 maggiori catene di supermercati del mondo controllavano nel 2003 il 33 per cento delle vendite mondiali di prodotti alimentari, le prime 5 hanno il 14 per cento del mercato.

Il successo dei supermercati nei paesi in via di sviluppo ha le sue radici negli stessi fattori che hanno funzionato negli Stati Uniti e in Europa negli ultimi cinquant’anni: costanza della qualità, comodità di acquisto, igiene e sicurezza degli alimenti, prezzi contenuti, uniti a una forte capacità di promozione e comunicazione, che non è possibile per i negozi alimentari tradizionali. Non ci sarebbe troppo da stracciarsi le vesti se un impiegato di La Paz o un maestro elementare di Hanoi preferisce fare la spesa in un supermercato Wal-Mart piuttosto che passare ore in strada a contrattare i prezzi con sette o otto venditori tradizionali.

Ma le conseguenze della rivoluzione del dettaglio alimentare sono devastanti per interi settori sociali e solo ora si inizia a vederne la gravità. La concentrazione della distribuzione in poche mani dà alle grandi catene un potere contrattuale senza precedenti. Questo vale soprattutto per i prodotti non-alimentari ma non è indifferente anche per gli alimentari. Tony De Nunzio, direttore della catena inglese Asda, acquisita nel 1999 da Wal-Mart, in un’intervista al Daily Telegraph del 2003 spiegava che nell’era pre-Wal-Mart Asda pagava un paio di jeans 14.99 sterline, ma dopo, grazie al potere contrattuale del colosso dell’Arkansas, solo 4 sterline. Per le banane il risparmio era più contenuto, ma comunque nell’ordine del 20%. La seconda conseguenza è la riduzione del numero dei fornitori: una grossa catena di supermercati di Pechino ha ridotto da oltre 1000 a 300 il numero di fornitori di prodotti alimentari e la stessa cosa avviene quasi ovunque nel mondo. Poi le catene riescono a eliminare alcuni passaggi di intermediazione, come la dipendenza dai mercati all’ingrosso.

In Messico uno studio di quest’anno ha rilevato che i mercati all’ingrosso delle principali città hanno conosciuto un calo dei volumi di affari nell’ordine del 25/30%, dovuto in gran parte alla crescita dei supermercati e al loro orientarsi verso acquisti effettuati presso grossisti specializzati o direttamente dai produttori. Se quest’ultima scelta volesse dire più margini di guadagno per chi lavora la terra, i supermercati sarebbero da considerare una benedizione e un grande fattore di sviluppo. Non è così. Le grandi catene, spesso attraverso degli uffici di logistica che lavorano in “outsourcing” impongono ai coltivatori una “contrattualizzazione” prima sconosciuta e legano l’acquisto di prodotti al rispetto di standard qualitativi (che non vuol dire automaticamente “di migliore qualità”) assai diversi da quelli tradizionali.

Un esempio, oggetto di un recente studio effettuato da M.Zamora sul commercio delle patate in Ecuador. I dettaglianti tradizionali richiedevano solo che le patate appartenessero a certe varietà, fissavano il limite massimo di danni meccanici dovuti alla raccolta, una misura minima e un certo tipo di colore. Le grandi catene dii supermercati oltre a questo richiedono: una determinata forma, un livello minimo di pulizia, un certo livello di sicurezza alimentare, un limite all’odore, una determinata misura, un determinato grado di maturazione, il mantenimento a temperature determinate, un packaging specifico, un certo volume di produzione, tempi e luoghi di consegna rigidamente determinati e condizioni di pagamento stabilite dal cliente. Questo numero e tipo di condizioni, che dalle patate dell’Ecuador si estende alla grandissima maggioranza degli acquisti di prodotti, sono fatali per decine di migliaia di produttori agricoli.

Non bastano gli sforzi per consorzisti e per tentare comunque di entrare nel canale dei supermercati moderni. Qualche tempo fa il Los Angeles Times ha raccontato la storia di Mario Chinchilla, contadino guatemalteco e capo di una cooperativa di produttori di pomodori. Nel 1999 la cooperativa parte con un piccolo finanziamento governativo necessario a rimodernare il magazzino confezioni. Il tentativo è quello di entrare a vendere a La Fragua, la catena di supermercati di proprietà di Ahold. Ad aiutarli, c’è un agronomo, Calendario Lopez, con un contratto di due anni, sempre a spese del governo. Ma le speranze di “restare nel gioco” non durano molto. I contadini della cooperativa non ce la fanno ad aspettare prima di essere pagati. E non riescono a fornire il prodotto seguendo i rigidi standard imposti da La Fragua. Ad affossare l’esperimento e la cooperativa arriva la fine del contratto dell’agronomo, che ora fa il venditore di serre hi-tech che nessuna cooperativa potrebbe mai permettersi. Oggi la cooperativa è quasi morta, la fornitura d’acqua è stata tagliata, i contadini rimasti coltivano pomodori ormai troppo piccoli per essere venduti. Gli altri se ne sono andati in città a cercare lavoro. Per La Fraga-Ahold naturalmente la morte della cooperativa è un fatto assolutamente marginale, di fornitori come quello ne hanno a decine.

E la marcia dei supermercati alla conquista del mondo è destinata a proseguire. A spingerla sono potenti forze e motivazioni economiche. Le economie di scale e l’ottimizzazione della logistica che le grandi catene realizzano con l’espansione planetaria. Ma c’è un altro fattore. Come nota la giornalista inglese Joanna Blythman nel suo libro.

Shopped (Harper Perennial, 2004, £7.99) le grandi catene europee e americane hanno la loro base in mercati molto competitivi ed affollati, dove i margini di profitto sono sempre più risicati. “I mercati sottosviluppati offrono affascinanti opportunità. E’ una spinta irresistibile a diventare più ricchi più in fretta. Anche se un punto vendita è all’altro capo del mondo, va bene ser riesce a produrre profitti che fanno felici gli investitori”. E nota che per tutti gli anni ’90,mentre l’Argentina si avviava a grandi passi verso la catastrofe economica, i supermercati argentini della catena Carrefour generavano margini di profitto tre volte più alti rispetto a quelli dei supermercati Carrefour in Francia.

Tratto da: www.chainworkers.org


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Inserito da: Daniele Lentini

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