In trappola

Promiseland -

La tagliola scattò, con un rumore secco e deciso, imprigionando l’esile zampa, recidendo pelle, carne, muscoli e legamenti, fino all’osso. La giovane volpe guaì. Un gemito prolungato, carico di stupore, risentimento e dolore. Soprattutto dolore. Partiva dalla zampa rinchiusa nella morsa metallica, raggiungendo ogni fibra del corpicino tremante, ricoperto da una folta e fulva pelliccia. […]

La tagliola scattò, con un rumore secco e deciso, imprigionando l’esile zampa, recidendo pelle, carne, muscoli e legamenti, fino all’osso.
La giovane volpe guaì. Un gemito prolungato, carico di stupore, risentimento e dolore. Soprattutto dolore. Partiva dalla zampa rinchiusa nella morsa metallica, raggiungendo ogni fibra del corpicino tremante, ricoperto da una folta e fulva pelliccia.
La volpe, sebbene giovane e inesperta, non fece alcun tentativo per liberarsi: sapeva che, dibattendosi, avrebbe soltanto peggiorato la sua già penosa situazione. Non era l’istinto a suggerirglielo, ma una vaga reminescenza, una nebbia lontana che tentava di farsi strada attraverso il dolore per emergere alla coscienza.
La bestiola si accucciò, in attesa. Di qualcosa o di qualcuno, di un evento che sarebbe accaduto di lì a poco. Il bracconiere che aveva piazzato la trappola sarebbe comparso, arrivando dal folto della boscaglia, e il dolore avrebbe finalmente cessato di tormentarla. Attendeva con pazienza: non poteva fare altro.
Quando il sole era ormai in procinto di tramontare, quando l’animaletto intrappolato aveva ormai perso le speranze e si preparava, rassegnato, ad affrontare la morte, l’uomo arrivò. Indossava un giaccone a quadri, stivali di gomma e un berretto con la visiera, ma non si scorgeva alcun fucile. Nemmeno l’ombra di un fucile, a tracolla di un bracconiere.
Non si trattava, infatti, di un cacciatore, bensì di un procacciatore, pagato per intrappolare le bestiole selvatiche ma non per ucciderle.
La volpe ebbe un brivido di paura, e inarcò la schiena pur senza averne avuto l’intenzione.
“Tranquilla, bella. Tra poco la tua zampa sarà libera”, asserì l’uomo. “Poi ti curerò a dovere”. Un sorriso sinistro gli increspò le labbra, come una ferita lunga e sottile capace di dividere il volto in due parti.
La bestiola guaì, forte, protestando contro l’uomo, la trappola, il mondo intero. E il destino crudele che giocava a lui, proprio a lui, uno scherzo beffardo.
La consapevolezza aveva attraversato il dolore ed era affiorata, indenne, alla mente della volpe. Conosceva già il destino che gli era stato riservato dall’uomo. E pensava a se stesso al maschile non perché era quello il suo sesso, ma perché era stato un uomo.
Un bracconiere. Un collega di colui che aveva piazzato la trappola, un procacciatore di animali da pelliccia destinati agli allevamenti.
In cambio della sua folta, fulva, morbida pelliccia avrebbe ottenuto due o tre mesi di prigionia in una gabbia stretta e sporca, esposta alle intemperie. I fili metallici gli avrebbero ferito le zampe; il puzzo intollerabile dei suoi stessi escrementi l’avrebbe nauseato. Avrebbe avuto cibo e acqua sufficiente ad assicurare la sua sopravvivenza fino al giorno fatale. Fino al giorno del massacro.
Quando era un uomo, aveva assistito impassibile, quasi compiaciuto, allo spettacolo delle volpi morenti. Uccise a bastonate sul muso per non danneggiare la preziosa pelliccia.
Ora tremava, di paura, ma anche di indignazione. Gli pareva di scorgere i suoi stessi occhi, colmi di sangue e lacrime a causa dei colpi di bastone ricevuti, spegnersi a poco a poco.
Fuggire era impensabile, con una zampa così malandata. Eppure avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sfuggire all’incubo che lo attendeva: pochi mesi di calvario seguiti da una morte atroce.
Da qualche parte, in una città o un paese, una donna vanitosa stava già pregustando la gioia di portare indosso la sua pelle, insieme a quella delle altre vittime designate. Risparmiava per poter acquistare una morbida, elegante pelliccia. Con la quale si sarebbe pavoneggiata, vestita di cadaveri.

Racconto di Teresa Regna

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