Se la caccia fosse un lavoro (1)

Promiseland -

Prima parte Nel novembre 2001 l\’allora responsabile regionale umbro delle guardie giurate del WWF Sauro Presenzini, all\’indomani di una impressionante serie di incidenti di caccia con esito mortale verificatisi in quella regione denunciò fermamente la caccia come problema di ordine pubblico. Gli rispose, a sostegno delle posizioni dei cacciatori, l\’assessore al bilancio del comune di […]

Prima parte

Nel novembre 2001 l\’allora responsabile regionale umbro delle guardie giurate del WWF Sauro Presenzini, all\’indomani di una impressionante serie di incidenti di caccia con esito mortale verificatisi in quella regione denunciò fermamente la caccia come problema di ordine pubblico. Gli rispose, a sostegno delle posizioni dei cacciatori, l\’assessore al bilancio del comune di Perugia, Fabio Faina, cacciatore egli stesso, dichiarando che i cacciatori: \”non sparano all\’impazzata ma seguono regole di comportamento estremamente precise\” e che \”la percentuale degli incidenti, rispetto al numero dei partecipanti alle battute, è irrisoria\” (1). Promiseland Redazione Italia ha realizzato uno studio il cui scopo è quantificare la pretesa \”irrisorietà\” degli incidenti di caccia attraverso un confronto con un diverso contesto, quello degli incidenti sul lavoro, nonché confrontare il concetto di sicurezza e prevenzione quale è affrontato a livello legislativo nei due diversi contesti.

Quello che segue è un testo riassuntivo di tale studio, che sarà pubblicato in due parti. In fondo a ciascuna di esse troverete il

link al testo integrale.

1. Definizione dell\’attività venatoria dal punto di vista della sicurezza

Cominciamo col dare una definizione dell\’attività venatoria osservata dal punto di vista della sicurezza. Essa in null\’altro consiste che nel libero uso di armi da fuoco in luoghi non protetti, siano essi pubblici o privati. Luoghi, in altre parole, in cui chiunque può trovarsi a transitare in qualsiasi momento. La sua principale e intrinseca caratteristica è pertanto la totale promiscuità di spazi con le altre attività umane, sia lavorative (agricoltura e silvicoltura innanzi tutto) che ludiche (turismo, escursionismo ecc.). Notiamo anche che coloro che esercitano tale attività, benché debbano superare a tale scopo appositi esami, null\’altro possono essere considerati, nell\’uso delle armi da fuoco, che dei dilettanti.

2. Si muore più di caccia o di lavoro?

Si farà riferimento nel seguito ai dati del 2001, in quanto sono i più recenti a nostra disposizione.

Da tali dati risulta che si ha un incidente mortale ogni 3.464.919 giornate lavorative e almeno un incidente mortale ogni 544.186 giornate di caccia. Dal rapporto fra le due ultime cifre si conclude che si muore di caccia almeno 6.37 volte più frequentemente che sul lavoro (rimandiamo al testo integrale per un approfondimento sui criteri adottati in tale calcolo).

3. Sicurezza e prevenzione nelle discipline del lavoro e dell\’attività venatoria.

La storia della legislazione in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro comincia in Italia nel 1898 con una normativa che stabilisce per il datore di lavoro l\’obbligo di stipulare una polizza assicurativa nei confronti del lavoratore. L\’ottica in cui viene affrontata la questione era pertanto a quel tempo puramente risarcitoria. Era del tutto assente il concetto di prevenzione.

La successiva evoluzione legislativa ha portato oggi a una regolamentazione costituita da un insieme piuttosto articolato di normative la cui punta più avanzata è il lungo e dettagliato D.L. 626/94, il cui concetto guida è il conseguimento della prevenzione come obiettivo primario in materia di sicurezza sul lavoro. Del tutto superata è pertanto l\’originaria ottica risarcitoria: prevenire il verificarsi dell\’evento negativo piuttosto che concepirlo come fatalità, lasciare che accada e risarcire a posteriori il danno.

Cosa deve intendersi per prevenzione? Il D.L. 626/94 definisce \”prevenzione\” \”il complesso delle disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell\’attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell\’integrità dell\’ambiente esterno\”. Sottolineiamo esplicitamente l\’attenzione estesa non soltanto all\’ambiente lavorativo ma anche all\’ambiente esterno e in particolare alla popolazione.

La norma prevede in particolare tre categorie di funzioni fondamentali e all\’interno di ciascuna di esse delle ben precise figure di riferimento, che riassumiamo nella seguente tabella:

Funzioni Figure di riferimento
Obblighi e responsabilità Datore di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori
Consulenza, analisi, soluzioni Servizio di Prevenzione e Protezione e relativo Responsabile, Medico Competente
Rappresentanza dei lavoratori Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

E\’ superfluo qui addentrarsi nell\’analisi dettagliata dei compiti attribuiti a ciascuna figura. Ci limitiamo a citarle per evidenziare come la legge concepisca l\’attuazione della sicurezza attraverso la prevenzione quale attività continuativa, sistematica e organizzata, non solo attraverso l\’attribuzione di compiti specifici ai vari soggetti coinvolti, ma anche attraverso la creazione di nuovi soggetti specificamente rivolti a questo compito.

Almeno un punto è comunque opportuno sottolinearlo. Il D.L. 626/94 è ritenuto a livello europeo inadempiente rispetto alle Direttive comunitarie di cui costituisce recepimento in quanto per la figura del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione non sono definiti con precisione i requisiti richiesti, come invece è previsto dalle Direttive stesse e come avviene, ad esempio, per la figura del medico competente. Vedremo in seguito il perché di questo rilievo.

Alle figure sopra elencate si aggiungono poi gli organismi di vigilanza esterni. Per l\’esattezza sono previsti ben 8 organismi pubblici aventi fra i loro compiti quello di svolgere \”attività di informazione, consulenza e assistenza in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro\”.

E veniamo ora all\’attività venatoria che in Italia è regolamentata a livello nazionale dalla Legge 157/92. Il tema della sicurezza trova spazio in essa in tre articoli: 12, 21 e 25.

L\’art. 12 prevede l\’obbligo a carico di chi pratica l\’attività venatoria di stipulare una \”polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi derivante dall\’uso delle armi o degli arnesi utili all\’attività venatoria\”. Inoltre egli ha l\’obbligo di stipulare una polizza assicurativa \”per infortuni correlata all\’esercizio dell\’attività venatoria\”. Viene qui citata espressamente l\’eventualità di \”morte o invalidità permanente\”. Il Legislatore dunque riconosce, come del resto è ovvio, all\’attività venatoria caratteristiche di alto rischio e riconosce come soggetti esposti a esso non solo coloro che praticano tale attività ma anche persone a essa estranee. Nel contempo tuttavia egli affronta questo aspetto in un\’ottica puramente risarcitoria.

La medesima ottica guida l\’art. 25, il quale istituisce un \”Fondo di garanzia per le vittime della caccia\” nei casi in cui il responsabile dei danni non sia identificato o risulti privo di assicurazione per responsabilità civile verso terzi, limitando però il diritto al risarcimento ai \”soli danni alla persona che abbiano comportato la morte od un\’invalidità permanente superiore al 20 per cento\”. Si ribadisce con ciò l\’affermazione che l\’entità dell\’esposizione al rischio, anche per il soggetto estraneo può risultare grave o addirittura letale.

La prevenzione non è esplicitamente trattata in quanto tale (fatto questo particolarmente significativo) ma accorpata, nell\’art.21, con altre disposizioni sotto la comune dicitura \”divieti\”.

Prima di analizzarlo è utile soffermarsi un momento sull\’Art.1 comma 2 il quale afferma:

\”L\’esercizio dell\’attività venatoria è consentito purché non contrasti con l\’esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole.\”

Una omissione colpisce in questa norma, trattando essa di un \”esercizio\” consistente come detto nell\’uso massiccio di armi da fuoco in luoghi promiscui con altre attività umane: che esso non costituisca pericolo per l\’incolumità pubblica. Si nota dunque fin dall\’articolo iniziale la precisa assenza, nella impostazione di principio voluta dal legislatore, di ogni preoccupazione relativa alla sicurezza e alla prevenzione. E ciò nonostante il fatto che \”è chiaro che l\’attività venatoria può porre in pericolo la tranquilla convivenza dei cittadini, la loro incolumità, particolari attività da questi svolte, ecc. ecc.\”. (5) Quest\’ultima frase non l\’abbiamo tratta da una pubblicazione ambientalista o animalista ma da un manuale di tecnica venatoria della Federazione Italiana della Caccia, che più oltre citeremo diffusamente. Essa non può dunque certamente essere accusata, per la fonte da cui proviene, di essere viziata da posizioni pregiudiziali o da esagerazioni estremisticamente tendenziose.

Esaminiamo ora il citato art. 21. Per l\’esattezza esso prevede il divieto di esercizio venatorio, fra gli altri, nei seguenti luoghi: giardini, parchi, terreni adibiti ad attività sportive, aie, corti o altre pertinenze di fabbricati rurali. Prevede inoltre delle distanze minime da rispettare dai fabbricati (100 m), dalle macchine agricole in funzione (100 m) e dalle vie di comunicazione (50 m), escludendo però da queste ultime le strade poderali e interpoderali. Tali distanze diventano di 150 m qualora si spari in direzione di una delle entità suddette se si usa un\’arma con canna ad anima liscia, di una volta e mezza la gittata massima nel caso di uso di altre armi.

Molto interessante è a questo punto riportare un passo del sopra citato manuale della Federazione Italiana della caccia in cui si discute su cosa debba intendersi per \”vie di comunicazione\” e in particolare \”strade\”.

Una breve nota preliminare: il detto manuale risale al 1979 e dunque commenta in realtà la preesistente L. 968/77 e non l\’attuale L. 157/92 che l\’ha sostituita. La seconda infatti null\’altro ha fatto, in tema di prevenzione e sicurezza, che riprodurre, pressoché letteralmente, la prima con ciò facendo sì che considerazioni vecchie di quasi un quarto di secolo rimangano oggi di piena attualità. Detto ciò, ecco il passo che qui ci interessa:

\”per strada deve intendersi quella via di comunicazione che è percorribile (salvo fatti eccezionali) in ogni stagione dai veicoli ordinari. (…) La legge poi non impone il rispetto della fascia di m. 50 di distanza da quelle strade, che pur avendo i requisiti di transitabilità sopra detti (…) siano poderali o interpoderali; per poderale si intende quella strada che pur partendo da una strada pubblica, porta ad una unità poderale, servendo normalmente ad un numero limitato di persone addette a quel podere (anche se ivi possono passare altre persone per recarsi alla relativa casa), e lì si fermi senza proseguire; per interpoderale si intende quella strada che pur partendo da una strada pubblica, serve più unità poderali, congiungendo un immobile ad altri, ma poi sempre terminando senza sfondo alcuno.

Se al contrario questa strada, pur partendo da una strada pubblica e congiungendo diverse unità poderali, prosegue riallacciandosi ad altra strada pubblica, ecco che questa serve ad un numero indeterminato di persone e come tale rientra nel raggio del rispetto di m. 50 per l\’esercizio venatorio.

In altre parole le strade senza sfondo non sono tutelate dalla legge, in quanto assai meno frequentate.\”

Uno dei pochissimi (due soltanto) punti di diversità fra fra l\’abrogata L.968/77 in vigore a quel tempo e l\’attuale L.157/92, in materia di prevenzione è che l\’art. 20 della prima consentiva alle autorità territoriali competenti di \”vietare temporaneamente la caccia nelle zone interessate da intenso fenomeno turistico\”. In proposito sul citato manuale si legge:

\”la esigenza del divieto (…) è così evidente che non necessita di commento alcuno\”.

Tale previsione tuttavia non è stata ribadita nella vigente legislazione statale che su questo punto è riuscita a essere pertanto addirittura peggiorativa della precedente.
A tale proposito è interessante una piccola digressione poiché \”una recentissima sentenza del Consiglio di Stato ha riconosciuto il potere del Sindaco di vietare la caccia per un limitato periodo di tempo ed in una zona circoscritta, con ordinanza ben motivata contingibile ed urgente per motivi di polizia locale, a tutela della pubblica incolumità\” (6). In essa fra l\’altro si legge:

\”Non sono solo i cani a creare pericolo per l\’incolumità, né è sufficiente la particolare competenza dei cacciatori, ad impedire l\’errore umano nell\’uso delle armi, errore che può essere fatale in situazioni di particolare affollamento della zona a causa della presenza di turisti.\”

Rilevante notare che con tale sentenza si respinge un ricorso presentato dalla Federazione Italiana della Caccia, la stessa Associazione Venatoria che ha curato la redazione di quel manuale in cui l\’esigenza del divieto veniva come già detto definita \”così evidente che non necessita di commento alcuno\”, la qual cosa dovrebbe indurre ad approfondite riflessioni circa l\’aderenza fra le dichiarazioni di principio e la pratica attività del mondo venatorio o di almeno parte di esso.

Torniamo ora al nostro discorso principale: da quanto sopra detto emerge un elemento di fondamentale importanza: il singolo cittadino non è tutelato – col che intendiamo: non è oggetto di tutela preventiva – in quanto tale bensì solo in quanto \”immerso\” in una rilevante collettività (la strada su cui egli transita deve essere \”molto\” frequentata, il fenomeno turistico deve essere \”intenso\”). Esempio concreto: una persona che lasci una via pubblica per incamminarsi lungo il viottolo che conduce alla propria abitazione di campagna è da quell\’istante al di fuori di qualsiasi tutela preventiva di legge e deve pertanto ritenersi potenzialmente esposto (sia pure \”accidentalmente\”) al tiro di colpi d\’arma da fuoco. Salvo poi ottenere ciò che per legge è da intendersi un \”giusto\” indennizzo, per sé se gli va bene, … per i propri beneficiari testamentari se gli va male.

Notiamo ancora il sussistere di una diretta conseguenza di questa impostazione su un piano che non crediamo sia esagerato definire dei diritti umani. Qualora infatti si voglia garantire la condizione di tutela preventiva della sicurezza, la L. 157/92, per il solo fatto di consentire l\’attività venatoria, impone inaccettabili limitazioni alla libertà del cittadino, costretto, se vuole mantenersi al sicuro, alla reclusione all\’interno dei fabbricati o, se è un lavoratore agricolo, delle macchine operatrici. Chi non volesse soggiacere a tali limitazioni si troverebbe nella condizione di soggetto esposto a rischio: a quel non trascurabile rischio che è il tiro di armi da fuoco, con la sola tutela della normativa risarcitoria, vedendo cosí gravemente violato il suo diritto alla sicurezza.

Non solo, ma una tale impostazione ci pare anche in contrasto con l\’art. 32 della Costituzione Italiana secondo il quale \”la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell\’individuo ed interesse della collettività\”, potendo il concetto di sicurezza intesa come tutela della propria incolumità fisica rientrare nel più ampio novero della tutela della salute. Nella vigente legislazione venatoria è palesemente mancante l\’elemento della tutela della salute come \”diritto dell\’individuo\”. La tutela è garantita, ripetiamo, solo nei confronti della collettività.

Riassumendo: il concetto di prevenzione quale è elaborato nella legislazione venatoria è estremamente rudimentale prevalendo in essa, come visto, l\’impostazione risarcitoria, legata, anche qui, al concetto di \”incidente\” come effetto di imprevedibile fatalità piuttosto che strettamente legato a fonti di pericolo e condizioni operative intrinseche all\’attività svolta. E in questa direzione è ancor oggi orientato anche il senso comune.

Un ulteriore punto da notare è che l\’art. 12 impone un limite minimo di età per il conseguimento della abilitazione all\’esercizio venatorio (18 anni) ma non un limite massimo. Ciò conduce a conseguenze a volte addirittura grottesche. Durante l\’ultima stagione venatoria infatti fra coloro che sono stati autorizzati a imbracciare un fucile nelle campagne italiane c\’è stato anche un uomo di 100 (cento) anni compiuti (7). Riteniamo superfluo commentare il fatto. Né è da ritenersi un caso isolato. In provincia di Brescia ad esempio \”hanno avuto il tesserino anche quattro ultra novantenni e 136 ultra ottantenni. Ben 1.985 i cacciatori con oltre settant\’anni.\” (8).

Un\’ultima nota la rivolgiamo al regime sanzionatorio che nel D.L. 626/94 è fortemente spostato sul versante penale (delle 13 sanzioni previste 12 sono penali e una sola amministrativa), a prescindere dal fatto che specifiche mancanze nell\’attuazione degli obblighi relativi alla prevenzione si siano o meno tradotte in un effettivo danno alle persone. Il solo fatto di non aver posto in atto una misura di prevenzione è visto come reato penalmente perseguibile.

Nella L. 157/92 le sanzioni relative a violazioni degli obblighi relativi alla sicurezza sono esclusivamente amministrative: in poche parole sparare un colpo d\’arma da fuoco a distanza ravvicinata contro una abitazione (e dunque contro i suoi occupanti) è ritenuta dal Legislatore mancanza appena un po\’ più grave del parcheggiare in divieto di sosta. Solo qualora l\’atto procuri danni reali scattano le conseguenze penali. Come era nel campo della sicurezza sul lavoro prima delle più recenti evoluzioni legislative.

Concludendo relativamente alla L. 157/92, notiamo esplicitamente come essa nasca in anni che vedono importanti innovazioni legislative in tema di sicurezza del cittadino (e primo fra tutti il definitivo abbandono del concetto di incidente come fatalità): il ripetutamente citato D.L. 626/94 in tema di sicurezza sul lavoro e la L. 46/90 in tema di impiantistica: norme capillari e dettagliate fino al limite (peraltro ben comprensibile) della pignoleria (10). Ancor più singolare e stridente risulta pertanto il fatto che essa sia ferma a una impostazione che nella sicurezza sul lavoro era tipica come abbiamo visto della legislazione di un secolo prima. Nel seguito cercheremo di comprendere le ragioni di questa \”immobilità\” della legislazione che regolamenta l\’attività venatoria in merito alle questioni relative alla sicurezza e ci domanderemo soprattutto se tale immobilità sia riformabile o non piuttosto \”fisiologica\” ovvero strettamente legata alla natura dell\’attività venatoria stessa.

Testo di: Filippo Schillaci – Promiseland Redazione Italia

Fine prima parte.

Per ulteriori approfondimenti si veda:
Se la caccia fosse un lavoro (testo integrale), al quale si rimanda, fra l\’altro, per le note cui fa riferimento il presente testo sintetico.

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