Gli allevamenti intensivi stanno lentamente ma inesorabilmente distruggendo il nostro pianeta: a confermarlo, una volta di più, arriva uno studio dal titolo “Milking the Planet“, pubblicato di recente dall’Institute for Agriculture & Trade Policy (Iatp). L’analisi dimostra che l’impatto ambientale di 13 grandi aziende occupate nel settore lattiero-caseario, tra le quali spiccano nomi del calibro di Danone e Nestlè, è aumentato dell’11% in soli due anni (biennio 2015-2017). Ma non basta: se i dati relativi ai gas inquinanti emessi da queste aziende vengono messi a confronto con quello dei due maggiori produttori di combustibili fossili del mondo, emerge incredibilmente che le industrie lattiero-casearie inquinano di più.
Va ricordato che nel 2015 gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite hanno firmato l’accordo di Parigi per diminuire in modo significativo le emissioni globali; nonostante questo e proprio dopo la stipula di questo accordo, si è assistito a un aumento di 32,3 milioni di tonnellate di gas serra emessi da queste società, che equivale all’inquinamento derivante da 6,9 milioni di autovetture guidate in un anno. Basti pensare che alcune delle aziende lattiero-casearie prese in considerazione hanno aumentato le loro emissioni del 30% nel biennio in questione.
Va specificato, come si sottolinea nel report, che nessuna di queste società è tenuta per legge a pubblicare o verificare le proprie emissioni inquinanti, né a presentare piani per contribuire a limitare il riscaldamento globale. Meno della metà di queste aziende rende pubbliche le proprie emissioni, mentre nessuna si è impegnata a ridurre in modo chiaro e assoluto le emissioni delle proprie catene di approvvigionamento o le emissioni degli animali stessi.
“A differenza del crescente controllo pubblico sulle società produttrici di combustibili fossili, esiste una scarsa pressione pubblica per ritenere i produttori di carne e prodotti lattiero-caseari responsabili delle loro emissioni, anche se l’evidenza scientifica sostiene che il nostro sistema alimentare è responsabile fino al 37% di tutte le emissioni globali“.
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Nonostante il settore stia attraversando un periodo di forte crisi a livello globale ormai da tempo, questo secondo gli esperti non ha impedito all’industria lattiero-casearia di espandersi in nuovi territori attraverso fusioni di aziende e acquisizioni, ampliando la sua produzione complessiva dell’8% in soli due anni. Rispetto a qualche decennio fa, nel mondo ci sono meno produttori di latte e derivati – a scapito dei piccoli caseifici a conduzione familiare – che però si sono avviati verso una vera e propria produzione di massa, che si traduce in prezzi bassi per gli allevatori, il che a sua volta induce gli stessi ad ampliare la produzione per rimanere a galla. Un circolo vizioso che nuoce enormemente al pianeta, oltre che ai milioni di animali coinvolti nella produzione. La crisi sanitaria ed economica da Covid-19 ha acuito il problema: il lockdown ha contribuito a far calare i consumi, mentre la produzione è rimasta invariata (e con essa la quantità di emissioni inquinanti), col risultato di elevate quantità di latte vaccino inutilizzato.
Latte vegetale per salvare il pianeta?
A fronte di un calo della richiesta di latte vaccino, si sta assistendo a livello globale a uno shift dei consumi verso le alternative vegetali: tra le diverse motivazioni alla base di questo cambiamento, la risposta alle problematiche ambientali rimane forse la spinta preponderante nelle scelte dei consumatori. Sì, perché è ormai chiaro come, se messi a confronto, le alternative vegetali battono senza riserva il latte vaccino in termini di emissioni inquinanti: la produzione di un bicchiere di latte vaccino produce quasi tre volte le emissioni di gas serra di qualsiasi latte non caseario, secondo uno studio dell’Università di Oxford dal titolo: “Reducing food’s environmental impacts through producers and consumers”
Il grafico mostra la differenza tra latte vaccino, latte di riso, latte di soia, latte di avena e latte di mandorla in termini di impatto ambientale su tre parametri (colonne): emissioni, utilizzo del suolo e utilizzo d’acqua. Produrre un bicchiere di latte vaccino ogni giorno per un anno richiede 650 metri quadrati di terreno, l’equivalente di due campi da tennis: 10 volte di più di quanto non ne richieda la produzione di latte d’avena. La produzione di latte di mandorla richiede più acqua rispetto alla soia o al latte d’avena, tuttavia si nota facilmente che sia il latte di mandorla che quello di riso richiedono un quantitativo d’acqua irrisorio se paragonato a quello di latte vaccino.
Mentre tutti i tipi di latte vaccino registrano una diminuzione in termini di volume di vendita, è boom per il latte vegetale e soprattutto per quello di avena: secondo alcune analisi, il valore di mercato di questo prodotto raggiungerà i 698,8 milioni di dollari entro la fine del 2027, contro i 372, 5 milioni raggiunti lo scorso anno.
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