Le bidonville dei cinghialai maremmani (prima parte)

Promiseland -

Prima parte \”La caccia: una magnifica esperienza a contatto con la natura\”, si legge su un sito di e per cacciatori, fra puntatori del mouse che si trasformano in mirini quando toccano un link e pagine di istruzioni per l\’uso di quegli strumenti di tortura che sono i radiocollari. La caccia, un desolato paesaggio di […]

Prima parte

\”La caccia: una magnifica esperienza a contatto con la natura\”, si legge su un sito di e per cacciatori, fra puntatori del mouse che si trasformano in mirini quando toccano un link e pagine di istruzioni per l\’uso di quegli strumenti di tortura che sono i radiocollari.
La caccia, un desolato paesaggio di tuguri fatti di lamiere ondulate arrugginite, legni marcescenti, reti metalliche, polvere d\’estate e fanghiglia d\’inverno, e poi guinzagli, catene, cibo costituito da avanzi buttati lì come capita: tutto questo ne è stata la nostra esperienza l\’estate scorsa, in Maremma, fra le luride bidonville in cui i \”cinghialai\” tengono rinchiusi in condizioni miserabili i loro cani.

Ma andiamo con ordine. Nella primavera scorsa, mentre raccoglievo il materiale che poi è andato a comporre l\’articolo
Il cacciatore che ama il suo cane mi è capitato fra le mani un documento che ha immediatamente attirato la mia attenzione. Ho contattato il suo autore per chiedergli chiarimenti, delucidazioni, prove. Mi ha confermato tutto: le campagne maremmane pullulano di vere e proprie squallide bidonville, al di sotto di ogni limite tollerabile di decenza, in cui sono rinchiusi centinaia – forse non è esagerato dire migliaia – di cani di \”proprietà\” dei cacciatori di cinghiali.

In ultimo, alla fine di agosto, l\’ho incontrato e sono stato condotto, insieme a un membro del Collettivo di Rinascita Animalista, in due di tali luoghi.

In questa prima parte pubblichiamo la Relazione redatta da questa persona, la quale, per ragioni di sicurezza, ha chiesto di restare anonima, e le fotografie da me scattate in una delle due bidonville visitate, situata nel comune di Scarlino. Nel lasciarci, questa persona ci ha detto: \”e se vi inoltrate laggiù, fra i canneti, ne trovate ancora, a decine, di baracche così\”. Non lo abbiamo fatto, un po\’ per mancanza di tempo materiale, un po\’ perché quel che avevamo visto ci era bastato.

Un\’ultima nota: nella baracca riprodotta nell\’ultima immagine non sono detenuti cani bensì volatili (piccioni e galline soprattutto). Ci siamo chiesti che relazione avesse con le altre. La spiegazione, crediamo, stia in uno sgorbio cartello eretto alla meno peggio accanto a un pesante cancello di ferro situato lì vicino, sul quale è scritto: \”Zona addestramento cani\”.

E adesso è tutto chiaro.

Filippo Schillaci


Toscana – Relazione sui cani dei cinghialai maremmani

Estate

In Maremma, ovunque ti giri, fai una passeggiata, passi in macchina, ai
bordi dei paesi, alle periferie delle città, in mezzo ai campi, nelle pinete
e nella macchia, isolate, nascoste, si incontrano baracche di legno putrido
e lamiere, anche di eternit, protette da cancelli, circondate da reti,
oscurate da teli verdi, inaccessibili alla vista se non fosse per le
fessure, i tagli e i buchi.

In ognuno di questi canili abusivi, che sono migliaia, vengono rinchiusi
cinque, dieci e anche più cani, soprattutto piccoli segugi, spinoncini,
meticci di questi.

Sono i cani dei cinghialai, allevati e utilizzati per la caccia al
cinghiale.

Cani lasciati soli, prigionieri di gabbie di un metro e mezzo per due con
tre, quattro animali costretti al letargo forzato tutto il giorno e tutti i
giorni per l\’intero periodo di chiusura della caccia. Ci sono cani rinchiusi
in box completamente al buio, come murati vivi.

Il sole crea temperature insopportabili d\’estate e i cani non hanno difesa
neppure all\’ombra delle basse tettoie dove il calore ristagna a causa delle
lamiere da cui sono circondati. A volte la tettoia è tanto piccola e
trasparente da fare un\’ombra illusoria.

Ma ci sono cani che non hanno neppure questa protezione e sono sottoposti al
sole diretto. Se i cani vengono tenuti legati a catena fissa, di un metro
e mezzo, due metri, possono solo fare il salto dal tetto della cuccia a terra e viceversa. Cercano allora un impossibile sollievo stringendosi alla
parete della cuccia che resta più in ombra oppure si infilano nello spessore
di quindici centimetri che separa questa dal terreno sottostante.

Cucce rudimentali di legno infetto e recinti fatiscenti, fogne inesistenti,
coperture di eternit, pavimenti in terra maleodoranti per i depositi di
escrementi, resti alimentari in putrefazione, fanno di questi luoghi un
serbatoio di microbi e di infezioni per chiunque oltre che un vero inferno
per gli animali detenuti.

Ma, soprattutto, colpisce l\’assenza dell\’acqua e, ove questa ci sia, si
presenta gialla e putrida. Non si notano le ciotole per il cibo. Pagnotte
di pane secco e pezzi di pizza giacciono per terra tra gli escrementi.
Eccezionalmente si distinguono nella polvere resti di crocchette e, ancora
più eccezionalmente, pastoni di pane bagnato, pomodoro, piselli, bucce di
mele. Il pasto a pane secco è la norma, viene somministrato al puro scopo di
renderli più aggressivi, e quindi più efficienti, nel momento in cui,
mordendo la carne del cinghiale, sentono l\’odore del sangue.

La cosa che più sconvolge è però la solitudine, la segregazione di questi
animali, l\’isolamento psicologico, la mancanza di rapporti e di contatti con
l\’uomo, la costante inedia, il tedio, la cupa tristezza che si legge nei
loro occhi.

Avvicinandoci ai recinti, infatti, si riscontrano all\’inizio atteggiamenti
violenti, denti in mostra, abbaiare furioso, salti contro le reti, a volte
schiumare dalla bocca. Ma, mano a mano che ci si accosta, i cani si
ritraggono, quasi fuggono, coda tra le gambe, il loro atteggiamento diviene
timido, di soggezione, temono perfino un gesto di carezza.

Sono aggressivi e paurosi contemporaneamente e questo suggerisce l\’idea che
vengano maltrattati attivamente dai proprietari. Sono strumenti di una
caccia violenta e vengono trattati non soltanto senza amore ma anche senza
pietà. Non viene riconosciuto loro neppure il minimo vitale quali esseri
viventi e senzienti, nè per etica nè per legge. Stremati dai tanti pasti
saltati, dalle tante ferite subite, dalle tante cucciolate partorite, dalle
tante angherie sopportate, questi cani sono il simbolo della barbarie umana
riconosciuta come sport e addirittura chiamata arte.

Inverno

Durante l\’attività venatoria i cani sono frequenti vittime di incidenti,
spesso anche molto gravi, a volte mortali. Indicativo è il fatto che circa
il 70% degli studi veterinari organizza, nel periodo di caccia, turni serali
e festivi.

La vita media di un cane da caccia al cinghiale è assai breve, si parla di
circa 6 anni. Questo è da imputare alle numerose ferite che vengono
procurate all\’animale durante la battuta e alle carenti cure che gli vengono
prestate. È infatti usanza comune che ai cani feriti non si pratichi
l\’anestesia e che le ricuciture siano fatte in profondità per permettere
successivi e frequenti interventi sullo stesso animale e, soprattutto, si
riducano i tempi della sua ripresa.

Va poi considerato che i cani curati negli studi veterinari non sono la
totalità, che è sempre in auge l\’abitudine di rattoppare personalmente il
proprio animale. Si mette più attenzione e riguardo nel restaurare una
bambola di pezza!

A questo punto si verifica una sostanziale equivalenza tra queste pratiche,
professionali o dilettantesche che siano, e la vivisezione.

Alla fine di ogni cacciata ci ritroviamo con una miriade di cani sparsi sul
terrtorio, cani che non sempre è possibile recuperare e che, non di rado,
capita di trovare sul ciglio della strada, investiti da un\’auto. Ma anche
per quelli feriti può essere compromessa la salvezza in quanto restano a
lungo senza soccorso.

Sappiamo che molti animali vecchi, inabili, incapaci, sventrati o mutilati
vengono sommariamente soppressi con una fucilata. Alcuni sono stati trovati
impiccati.

Articolo firmato – 27 marzo 2003

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