Leggende agro-silvo-pastorali

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Se le leggende metropolitane sono moda degli ultimi anni, quelle agro-silvo-pastorali sono vecchie quanto l’uomo. Ma se un tempo tema di esse erano naiadi e centauri, oggi sono personaggi decisamente meno affascinanti anche se altrettanto fantasiosi. Se un tempo le leggende si narravano attorno al fuoco, oggi si ritrovano lì dove meno ce le aspetteremmo: […]

Se le leggende metropolitane sono moda degli ultimi anni, quelle agro-silvo-pastorali sono vecchie quanto l’uomo. Ma se un tempo tema di esse erano naiadi e centauri, oggi sono personaggi decisamente meno affascinanti anche se altrettanto fantasiosi. Se un tempo le leggende si narravano attorno al fuoco, oggi si ritrovano lì dove meno ce le aspetteremmo: sulle apparentemente prosaiche cronache dei giornali e in certe surreali dichiarazioni di esponenti politici. Fra i protagonisti assidui della fantasia rurale di giornalisti e politici ci sono loro, i cacciatori, ma non quelli di Cappuccetto Rosso, bensì quelli veri, armati di veri fucili. Molte sono le favole che si narrano, e che essi stessi narrano, sul loro conto. Fra esse c’è quella del cacciaotre utile all’agricoltore. L’estate scorsa questa favoletta ce l’ha raccontata Fulvia Bandoli, della direzione dei DS, e ne abbiamo ampiamente parlato, ma non è stata certo lei l’unica. Nei mesi precedenti i casi si sono susseguiti. Come chi crede agli elfi non si preoccupa di accertarsi se mai ne sia stato incontrato uno a memoria d’uomo, anche chi mostra di credere in simili favole non si preoccupa molto di sottoporle alla verifica dei fatti. E’ il caso ad esempio di Guido Bonino, presidente della Comunità Montana di Millesimo (Savona) il quale nell’aprile scorso si è fatto «portavoce delle proteste contro il nuovo piano faunistico varato dalla Provincia», piano che, una volta tanto, non prevedeva favori a valanga nei confronti di chi spara in mezzo a noi ma al contrario una estensione delle aree protette. Motivo dell’opposizione: i danni di cinghiali e caprioli all’agricoltura (1).

Cominciamo invece a guardarli con cognizione di causa i fatti, perché sono essi e solo essi che qui ci interessano.

E Cominciamo da Veglia (Trieste) dove, sempre in aprile, sono stati gli stessi cacciatori a chiedere fuoco libero contro orsi e cinghiali che avrebbero ucciso oltre 500 pecore. Ed è proprio qui che le favole hanno cominciato a rivelarsi tali. Perché i cinghiali, che secondo l’ipotesi ventilata dai cacciatori, sarebbero giunti probabilmente a nuoto dalla vicina Cherso, sono in realtà fuggiti, attraverso valichi «nel recinto che delimita la riserva venatoria, dove vivono assieme ai cervi. Essendo ottimi nuotatori, i cinghiali sono quasi certamente “sbarcati” a Veglia, dove ne sono stati segnalati una quindicina» (2). E già sarebbe sufficiente per comprendere come i cacciatori stessi sarebbero i responsabili, sia pur indiretti e involontari, dell’invasione. Ma c’è di più. Leggiamo ancora: «questa versione dell’arrivo via mare non convince gli allevatori veglioti di ovini, convinti che siano stati i cacciatori stessi a portare abusivamente i cinghiali sull’isola, per “arricchire” le loro battute di caccia» (2). Non staremo neanche a dirlo: nonostante questi pesanti sospetti le richieste dei cacciatori sono state subito accolte dall’Ufficio regionale per lo Sviluppo economico. Le favole hanno sempre un grande fascino, non solo sui bambini.

Nelle Marche al contrario alle favole hanno smesso di crederci e si sono accorti che i danni all’agricoltura (Cinquanta milioni di euro di danni all\’anno alle colture e ai tartufi), non vengono dai cinghiali “normali” bensì da quelli ibridi, originari dell\’Est europeo, introdotti in Italia guarda caso a scopo venatorio e poi incrociati con i maiali. «Bestioni che arrivano a pesare fino a 170 chilogrammi ciascuno, spiega il capogruppo consiliare Verde in Regione, Marco Moruzzi, e che essendo molto prolifici (fino a 12 esemplari a cucciolata) hanno soppiantato in poco tempo i più miti e defilati cinghiali di razza appenninica, che pascolavano soltanto nelle zone boschive montane» (3).

E nelle favole hanno smesso di credere anche gli agricoltori della Val Bormida dove, nello scorso settembre, i rappresentanti della Coldiretti nell’ATC n. 5 di Cortemilia si sono dimessi dal Consiglio di Gestione dopo «un’estate di discussioni, di denunce e inutili tentativi di dialogo». «Per troppo tempo» dice Marcello Gatto, presidente provinciale della Coldiretti, «gli agricoltori delle zone limitrofe a quelle di caccia hanno lamentato i seri danni causati dagli animali selvatici». Tutte le proposte avanzate dalle Organizzazioni degli Agricoltori, continua, «sono state completamente ignorate. I cacciatori hanno voluto tenere ben stretti i privilegi opponendo un muro di rifiuti e stroncando sul nascere qualsiasi tentativo di confronto». Ed è infine nelle Associazioni Ambientaliste, oltre che nelle altre Organizzazioni agricole e negli Enti locali, che Marcello Gatto individua finalmente i propri naturali interlocutori. Conclude infatti: «Abbiamo invitato enti e associazioni a valutare la possibilità di ritirare i propri rappresentanti per unificare il fronte del malcontento e formare un gruppo unito di opposizione» (4). E meno di un mese dopo, a metà ottobre, egli, insieme ai presidenti provinciali di Confagricoltura e CIA, indirizza una lettera aperta a Comuni, Comunità montane e Associazioni Ambientaliste chiedendo che si adoperino «per una gestione equilibrata del territorio finora impossibile per il predominio di una cultura venatoria anziché uno sviluppo equilibrato nella gestione delle risorse ambientali. Il mondo agricolo», conclude la lettera, «semina per raccogliere e non per farsi indennizzare» (5).
E’ tutto? No. Ancora in provincia di Cuneo, ad Acceglio, proprio in quegli stessi giorni sono stati liberati, ovviamente ancora una volta a scopo venatorio e per volontà dei cacciatori, 40 cervi, con immediati «problemi alla circolazione e danni alle colture», tanto che «per assicurare il totale risarcimento dei danni peritati la Provincia ha stanziato nel triennio 250.000 euro» (4). Di denaro pubblico ovviamente, cioé nostro.

E’ tutto? Nuovamente no. A Paulilatino, in Sardegna le cose vanno ancora peggio e sono ancora gli agricoltori a farne le spese: «L\’intero territorio comunale», si legge, «sembra alla mercé delle doppiette. Ormai il vasto territorio paulese, specie le domeniche, diventa impraticabile, eccezion fatta ovviamente per gli amanti della caccia. A denunciare la situazione sono parecchi agricoltori, che lamentano uno scadimento nei comportamenti dei cacciatori: muretti a secco ripetutamente abbattuti, recinzioni divelte, attività venatoria presso ovili o dove è rinchiuso il bestiame». Comportamenti da teppisti insomma che non si fermano al danneggiamento della proprietà e del lavoro altrui ma giungono anche, qui come altrove, a metterne in serio pericolo l’incolumità: «Si rischia seriamente di essere impallinati: c\’è chi spara incurante del bestiame o di quanti potrebbero essere lì ad accudirlo. Anche al buio. Mattina e sera bisogna spesso controllare l\’intera azienda per ripristinare i tanti passaggi aperti, ad iniziare dalla semplice chiusura dei cancelli». «E gli stessi che auspicavano una caccia feroce ai cinghiali, cresciuti di numero e dunque dannosi per l\’agricoltura», conclude il cronista, «fanno marcia indietro: “Meglio i cinghiali che i cacciatori, paulesi compresi”, sostiene più di uno» (6).

E’ tutto? Infinitamente no. Anzi, questo non è ancora neppure il peggio. Il peggio i cacciatori, o chi per loro, lo hanno combinato a Novara, nella cui provincia sono state immesse lepri importate dall’Ungheria e affette da tularemia, brucellosi e leptospirosi. Categorie più a rischio, si legge, sono guardiacaccia e agricoltori, oltre ovviamente ai cacciatori stessi la cui attività dunque risulta pericolosa per essi stessi e per gli altri anche quando essi non imbracciano materialmente un fucile.

Quasi da peste manzoniana le misure consigliate dall’assessore provinciale Andrea Molfetta: «Occorre evitare manipolazioni e contatti con gli animali deboli, barcollanti o che presentano lesioni, con le loro carcasse, urine, sangue e liquidi biologici. Per questo – sottolinea l’assessore – bisogna usare guanti, camici, stivali e mascherine. Occorre evitare di bere acqua non potabile, usare stivali di gomma per immergersi in acque stagnanti, evitare di consumare carne, frattaglie o visceri di animali selvatici o domestici, crude o poco cotte, e comunque evitare il consumo di carni al di fuori del regolare circuito commerciale» (7).

Sono queste dunque le “sinergie” fra mondo agrario e mondo venatorio di cui fantasticava recentemente non ricordo più se il ministro Alemanno o l’onorevole Berlato. I quali sotto il guanciale probabilmente tengono ancora la sempre più vecchia e sdrucita edizione di Cappuccetto Rosso che leggevano da bambini e ad essa si ispirano nelle loro azioni politico-venatorie.

E dopo tutto ciò? Ripensamenti? Marce indietro? Nemmeno per sogno: i cacciatori i ripopolamenti li vogliono a ogni costo, salvo poi atteggiarsi a paladini dei campi di fronte ai danni compiuti dagli animali da loro stessi introdotti al di fuori di tutti gli equilibri naturali. E chiudiamo citando il perentorio avvertimento che il segretario Caccia Pesca Ambiente Sport di Massa, Valerio Ercolini nel lamentarsi del cattivo andamento di una zona di ripopolamento in Val di Magra, lancia alle «forze politiche, che si rammentino della presenza e dell\’importanza del mondo venatorio non solo pochi giorni prima delle votazioni ma durante tutta la legislazione» (8). Sulla presenza del mondo venatorio è impossibile nutrire dubbi. Non ci riesce chiaro tuttavia comprendere in cosa consista la sua importanza (si riferisce forse ai danni arrecati?). Quanto alla memoria delle forze politiche, riguardo al mondo venatorio mi pare che sia ben sveglia tutto l’anno. Non si capisce di cosa Valerio Ercolini si lamenti. Forse che non gli permettano ancora di sparare in città?

Fonti giornalistiche
(1) La Stampa, 2 aprile 2002.
(2) Il Piccolo di Trieste, 29 aprile 2002.
(3) Notizia ANSA, segnalata da \”Bioagricoltura Notizie\” n. 13, 5 Aprile 2002.
(4) La Stampa, 24 settembre 2002
(5) La Stampa, 17 ottobre 2002
(6) La Nuova Sardegna, 10 novembre 2002
(7) La Stampa, 5 aprile 2002.
(8) Il Tirreno, 28 marzo 2002.

Testo di: Filippo Schillaci

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