L’inchiesta di Report e la reazione del settore zootecnico. La replica di Sigfrido Ranucci

Il 13 Aprile 2020 è andata in onda un’inchiesta di Report in cui si è analizzato il peso dell’allevamento intensivo nel suo contributo all’incremento dei tassi di inquinamento. Il titolo dell’indagine è “Siamo nella ca…” e spiega perché i liquami prodotti dalle attività di allevamento intensivo rappresentano il fulcro di un problema davvero rilevante. Durante […]

Il 13 Aprile 2020 è andata in onda un’inchiesta di Report in cui si è analizzato il peso dell’allevamento intensivo nel suo contributo all’incremento dei tassi di inquinamento. Il titolo dell’indagine è “Siamo nella ca…” e spiega perché i liquami prodotti dalle attività di allevamento intensivo rappresentano il fulcro di un problema davvero rilevante. Durante la trasmissione si afferma che potrebbe esserci un legame tra inquinamento generato dallo spandimento dei liquami degli allevamenti intensivi e tasso di contagio da Covid-19.

Approfondisci i temi dell’inchiesta qui:
Inchiesta di Report: il legame tra allevamento intensivo, inquinamento e diffusione di Covid-19 

Insorgono le Associazioni di categoria

Il settore zootecnico prova ad alzare la voce. Sono già tre le inchieste che pongono al centro della discussione, il sistema allevamento come problema. Prima di “Report“, è stata la volta delle trasmissioni “Indovina chi viene a cena” e “Sapiens” in cui, in due diversi filoni di approfondimento, l’industria alimentare legata alla carne è finita sotto i riflettori attraverso l’identificazione di punti deboli, contraddizioni e portata dell’impatto.

Approfondisci qui:
Le inchieste di “Indovina chi viene a cena” e “Sapiens” fanno tremare l’industria della carne 

L’assessore lombardo all’Agricoltura Fabio Rolfi ha dichiarato che i dati emersi nell’indagine di Report, sono fake news. A lui si è aggiunto Ettore Prandini presidente della Coldiretti, che ha contestato il contenuto del servizio “Siamo nella ca…”. Al coro, si sono unite le voci delle associazioni di categoria che hanno espresso il loro disappunto.

Il Segretario della Commissione Agricoltura della Camera Guglielmo Golinelli ha commentato:

“Report ha affermato che, secondo il paper, le polveri sottili aumentano la diffusione del virus, poi che gli allevamenti sono la principale fonte di emissione di polveri sottili e quindi che gli allevamenti sono corresponsabili nella diffusione del virus. Ma gli allevamenti secondo l’Ispra non sono la principale fonte, sono una fonte minoritaria nell’emissione di polveri sottili e quindi Report non può sostenere una tesi del genere. Senza contare che il programma ci ha anche buttato dentro l’inquinamento delle falde acquifere, altro dato su cui faccio notare quanto ha detto Ispra e cioè che gli allevamenti sono minoritari nell’inquinamento delle falde acquifere. A questo riguarda faccio notare, più in generale, che metà Italia è sprovvista di depuratori o, nella migliore delle ipotesi, sono sottodimensionati. Di qui il problema dei nitrati nelle acque sotterranee”.

La replica di Sigfrido Ranucci, autore e conduttore di Report

Sigfrido Ranucci ha subito replicato in una dichiarazione rilasciata ad Adnkronos:

“Dall’accusa di fake news siamo arrivati all’ipotesi scientifica che è esattamente il contesto in cui è stata realizzata l’inchiesta di Report. Personalmente ho detto che è una questione da approfondire, un position paper da approfondire come del resto ha detto anche l’Istituto Superiore di Sanità che ha sottolineato come il rapporto tra la diffusione del virus Covid-19 e la mortalità nei luoghi con più inquinamento Pm10 (come è emerso anche dallo studio di Harvard) deve essere approfondito. Se poi uno cerca in Report il silenzio su cose così importanti ha sbagliato interlocutore. Noi continueremo a raccontare fatti e non fake come dimostra la storia venticinquennale di ‘Report’. Che le deiezioni rilasciate nell’ambiente producano ammoniaca e che questa favorisca la produzione di Pm10 lo dice lo stesso dirigente dell’Arpa Lombardia. Che le pm10 possano diffondere dei virus è emerso dallo studio fatto dai ricercatori di Pechino che hanno trovato, infatti, il 4% di composizioni di virus (come quello dell’aviaria e morbillo) su 206 campioni di Pm10. Il fatto poi che c’è un aumento della mortalità del 15% dove c’è maggiore diffusione di Pm10 è emerso dallo studio di Harvard. Sono tutti studi, messi infila uno accanto all’altro, che meritano un approfondimento, come ha affermato lo Stesso Istituto superiore di Sanità ai nostri microfoni

Un nuovo studio dell’Università di Firenze avvalora la tesi argomentata in Report

Il 15 Aprile 2020 intanto, è arrivato un ulteriore studio a cura dell’Università di Firenze in cui effettivamente si fornisce ulteriore evidenza della veridicità dell’ipotesi espressa nell’inchiesta di Report.

Il titolo dello studio: “Più contagi nelle aree ad agricoltura intensiva, il futuro nei sistemi tradizionali”.

Riportiamo il comunicato stampa con i risultati dello studio:

Firenze, 15 aprile 2020 – Nelle aree dove resistono sistemi di agricoltura tradizionale si registrano una minore diffusione del virus: dai 9 ai 594 casi in media. È quanto emerge dallo studio condotto dal laboratorio CULTLAB della Scuola di Agraria dell’Università di Firenze in collaborazione con la segreteria scientifica dell’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale. Lo studio mette in relazione il numero di casi di Coronavirus registrati sul territorio nazionale e i modelli di agricoltura presenti nelle varie zone del Paese, evidenziando una maggiore incidenza del virus, da 4.150 fino a 8.676 casi, nelle zone agricole periurbane e ad agricoltura intensiva, in particolare nelle aree della Pianura Padana, del fronte adriatico dell’Emilia Romagna, della valle dell’Arno tra Firenze e Pisa, e nelle zone intorno a Roma e Napoli, dove si registra un più alto livello di meccanizzazione, impiego della chimica e agroindustria e maggiori interrelazioni con urbanizzazione e inquinamento.

“Ci siamo occupati di indagare la relazione tra i casi di Coronavirus rispetto ad un tema poco esplorato – dichiara il professor Mauro Agnoletti, coordinatore del progetto e responsabile scientifico del programma della FAO per la tutela dei Paesaggi agricoli di rilevanza mondiale – che interessa non solo all’Italia, cioè il territorio rurale. Eppure, l’agricoltura è considerata un servizio essenziale particolarmente in questo momento di crisi. È quindi importante capire il rapporto fra i modelli di agricoltura e la diffusione del virus anche in vista del ripensamento del modello di sviluppo passata l’emergenza”.

Quattro i modelli di agricoltura presi in considerazione dallo studio: aree agricole urbane e periurbane, aree ad agricoltura intensiva (es. Pianura Padana), aree con agricoltura a media intensità energetica (dove si praticano sistemi tradizionali) e aree con agricoltura a bassa intensità energetica (tipicamente nelle zone di montagna del centro-nord, nella collina rurale meridionale e in alcune aree di pianura del sud e delle isole). Considerato il dato medio nazionale della diffusione del Coronavirus, pari a 47 casi ogni 100 kmq, nelle aree ad agricoltura intensiva l’intensità del contagio sale a 94 casi ogni 100 kmq, mentre nelle aree ad agricoltura non intensiva il dato scende a 32 casi ogni 100 kmq.

Il caso della Pianura Padana (province di Alessandria, Asti, Bergamo, Biella, Bologna, Brescia, Como, Cremona, Cuneo, Ferrara, Forlì-Cesena, Gorizia, Lecco, Lodi, Mantova, Milano, Modena, Monza e della Brianza, Novara, Padova, Parma, Pavia, Piacenza, Pordenone, Ravenna, Reggio nell’Emilia, Rimini, Rovigo, Torino, Treviso, Udine, Varese, Venezia, Vercelli, Verona, Vicenza) è particolarmente esemplificativo: qui si concentra il 61% delle aree ad agricoltura intensiva di tutto il Paese e fa registrare il 70% dei casi COVID-19 in Italia. Ma con una distribuzione differente a seconda dei modelli agricoli praticati: nelle aree della Pianura Padana ad agricoltura intensiva si registrano 138 casi ogni 100 kmq, mentre in quelle dove ad agricoltura non intensiva la media scende a 90 casi ogni 100 kmq.

Le aree a media e bassa intensità energetica, dove sono concentrate il 68% delle superfici protette italiane, risultano invece meno colpite dal Covid-19. Queste aree sono distribuite soprattutto nelle zone medio collinari, montane alpine ed appenniniche, caratterizzate da risorse paesaggistiche, naturalistiche ma anche culturali, storiche e produzioni tipiche legate a criteri qualitativi più che quantitativi. Il modello di agricoltura, detto altrimenti, riflette uno stile di vita diverso rispetto a quello delle zone ad alta intensità energetica. Proponendo una interessante prospettiva sul futuro. “Questo tipo di organizzazione – produttiva, economica e sociale – potrebbe rappresentare un modello di sviluppo da cui ripartire una volta passata l’emergenza”, commenta Agnoletti.
Si tratta di sistemi agricoli che possono garantire sicurezza alimentare, oltre allo sviluppo equilibrato di attività terziarie legate al turismo, all’agriturismo, al commercio, ai servizi e ai prodotti tipici. Sistemi che la FAO, attraverso il programma GIAHS, con la collaborazione dell’Italia, ha l’obiettivo di tutelare e promuovere in Italia e nel mondo e che potrebbero rivelarsi utili per la “fase 2” e la ricostruzione che seguirà il post-virus.
Ufficio stampa Progetto GIAHS-AICS, Scuola di Agraria


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