Ci sono anche due italiani tra i ricercatori vincitori del Lush Prize 2020, premio in denaro che viene assegnato a iniziative scientifiche e campagne che mirano a porre fine o sostituire la sperimentazione animale, in particolare nel settore della ricerca tossicologica. Si tratta di Domenico Gadaleta, ricercatore dell’Istituto Mario Negri di Milano, ed Edoardo Carnesecchi, che lavora in Olanda nell’università di Utrecht. Entrambi hanno partecipato nella categoria “Giovani Ricercatori” e hanno ricevuto un premio di 10 mila sterline.
Il premio Lush è frutto di una collaborazione tra la nota marca cosmetica e l’Ethical Consumer Research Association (Associazione di ricerca sul consumo etico); fin dal 2012 mette a disposizione un fondo annuale – che dal 2018 è diventato biennale – da 250 mila sterline per finanziare una ricerca scientifica alternativa a quella che coinvolge da sempre gli animali. Il premio è suddiviso in cinque diverse categorie (Scienza, Formazione, Lobby, Sensibilizzazione dell’opinione pubblica e Giovani ricercatori) e negli anni passati aveva già visto altri italiani tra gli assegnatari del riconoscimento. Gadaleta e Carnesecchi, in particolare, hanno presentato due progetti di modelli alternativi per valutare la tossicità di determinati composti chimici.
Il dottor Domenico Gadaleta (a destra in foto) ha vinto con un progetto che mette in campo l’intelligenza artificiale e simulazioni computerizzate per prevedere il rischio legato ad alcune sostanze chimiche di causare danni neurologici. “Il numero di sostanze alle quali siamo potenzialmente esposti – spiega – rende impossibile, oltre che eticamente inaccettabile, ricorrere a test sugli animali per valutarne i potenziali rischi legati. A tal proposito, l’uso di modelli computazionali aiuta a prevedere il pericolo rappresentato dalle sostanze chimiche prima ancora che esse vengano prodotte e messe in commercio, con un chiaro vantaggio in termini di sicurezza della popolazione e risparmio di denaro”.
Il dottor Edoardo Carnesecchi ha presentato una piattaforma web ‘in silico’ in grado di valutare la tossicità che gli agenti chimici possono avere sulla nostra salute e sugli ecosistemi. Nessuna provetta o test “in vivo”, ma simulazioni riprodotte al computer attraverso formule matematiche, in un software che verrà messo a disposizione gratuitamente per la comunità scientifica. “In termini pratici – spiega – possiamo affermare che è praticamente impossibile eseguire test tossicologici in vivo per tutte le sostanze chimiche e le loro possibili combinazioni presenti nel “mondo reale” (sarebbero infinite!): per svolgere test di questo tipo in laboratorio avremmo bisogno di milioni di animali vivi, di sostenere costi elevatissimi e di tempi indefinibili. Quindi, abbiamo urgente bisogno di sviluppare strategie smart e di applicare le New Approach Methodologies (NAMs), che si basano su strumenti in silico e su metodi animal-free, che quindi non prevedono la somministrazione di test sugli animali. Ecco perché ritengo che questi metodi e strumenti permetteranno alla comunità scientifica di valutare i rischi indotti dalle sostanze chimiche in un modo più efficiente, rapido, sostenibile e green“.
Test sugli animali: sono ancora la norma
Nonostante da anni moltissime associazioni animaliste internazionali si battano per una ricerca scientifica senza animali, i passi avanti raggiunti da questo punto di vista sono ancora pochi e poco soddisfacenti. Va ricordato che in ambito medico la sperimentazione animale è richiesta per legge: prima che un farmaco possa essere usato sull’uomo, è obbligatorio che superi alcuni test eseguiti in laboratorio su cavie vive. Parliamo di cani, cavalli, ratti, topi, mucche, maiali, pecore, piccioni, furetti, rettili, pesci, uccelli, che possono derivare da allevamenti o essere prelevati in natura.
Secondo la LAV, solo in Italia si stima che siano 700 mila gli animali usati in laboratorio ogni anno, che diventano 12 milioni nell’Unione Europea. I test riguardano farmaci ma anche prodotti chimici, pesticidi e detersivi. Gli animali più utilizzati in assoluto risultano topi e ratti, perché “economici” e facili da maneggiare; nessuna motivazione dal punto di vista scientifico, esclusivamente una questione di comodità. Da alcuni anni è in aumento anche il ricorso alle scimmie, anche se il loro uso è regolamentato dalla normativa italiana in modo molto restrittivo. Il problema, come spiega LAV, è che “il 95% dei test su animali non supera le prove cliniche per gli esseri umani. È quindi nell’interesse della scienza cercare metodi più attendibili. Molti li ha già trovati: le ricerche che non prevedono l’uso di animali sono infatti sempre più numerose. Così, grazie a modelli matematici, studi clinici e test su cellule e tessuti coltivati in vitro, sono stati fatti importanti passi avanti nello studio e nella cura delle malattie”.
Come ricorda inoltre l’associazione, l’84% degli italiani (fonte: Eurispes 2016) è contrario alla sperimentazione animale e la stessa scienza ha dimostrato i vantaggi dei metodi sostitutivi. La maggior parte dei Paesi europei, così come gli USA, investono ormai da tempo nella ricerca senza animali, mentre l’Italia continua a dare spazio (e fondi) a metodi di ricerca eticamente inaccettabili e considerati ormai obsoleti dal punto di vista scientifico.
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