Da tempo è stato sollevato il dubbio che l’uso per prodotti vegani di termini legati alla tradizione produttiva delle carni possa rappresentare una condotta ingannevole o addirittura concorrenza sleale.
Già nel Novembre 2016 gli Europarlamentari Paolo De Castro (PD) e Giovanni La Via (FI) presentarono alla Commissione Europea un’ interrogazione che sosteneva che nel commercio dei prodotti vegani “pur non violando le regole, si riscontrano pratiche tese a promuovere la vendita di prodotti che si avvantaggiano di denominazioni chiaramente riferibili a prodotti a base di carne”, chiedendo alla Commissione di “predisporre una normativa in grado di salvaguardare determinate denominazioni riferibili a prodotti a base di carne, come peraltro avviene per i prodotti lattiero-caseari.”
Tale interrogazione destò grande allarmismo tra i produttori di alimenti vegan, spingendo molte aziende a modificare prudenzialmente la denominazione dei loro prodotti evitando riferimenti a polpette, wurstel, fettine, cotolette e burgers. Io stessa, come consulente di diritto alimentare ed etichettatura, all’epoca suggerii ai miei clienti di ricercare termini alternativi. Non perché fossi persuasa della fondatezza dell’interrogazione, ma per evitare che -se la risposta della commissione avesse ristretto la libertà di scelta delle denominazioni- le aziende fossero costrette a cambi repentini di etichette, con conseguente aumento dei costi che si sarebbero riversati sui prezzi di vendita e –quindi- sui consumatori.
In sintesi (il testo integrale può essere letto qui: interrogazione parlamentare) la Commissione rispose: “Ma di cosa state parlando? Le regole ci sono già e sono sufficienti per tutelare i consumatori. La normativa vieta l’utilizzo di alcune denominazioni specifiche, con atti formali. Per il resto, i succedanei sono leciti, purché i componenti sostitutivi siano messi chiaramente in evidenza.” Chiaro.

Ma la scorsa settimana, martedì 16 ottobre, l’On. Nevi (FI) membro della Commissione Agricoltura alla Camera ha chiesto al Ministero dell’Agricoltura di tornare sul tema, chiedendo come intendesse operare contro “bistecche di tofu, scaloppine di soia, hamburger vegetali perché fuorvianti per il consumatore e latti di soia e di riso” che (udite udite) secondo l’onorevole Nevi “Dovrebbero chiamarsi succhi”. Il testo integrale è disponibile al seguente link: Atto Camera – Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-00741 presentata da NEVI Raffaele.
Molto probabilmente anche nella Repubblica 3.0 le commissioni vengono composte con il Manuale Cencelli e non per meriti e competenze.
Lo si desume dal fatto che si affermi di assistere alla vendita di “latte di soia e latte di riso, che dovrebbero essere chiamati succhi”. Innanzitutto latte di soia e latte di riso sono denominazioni vietate, perché esiste una norma specifica che riserva la denominazione “latte” al “prodotto di una ghiandola mammaria”. Onorevole, se li dovesse trovare al supermercato, chiami i NAS o l’ICQRF, e non stia a perder tempo al question time. Il divieto esiste e se ancora ci sono aziende che non lo rispettano, vanno semplicemente e giustamente sanzionate.
Ma soprattutto, quei prodotti non sono “succhi” poiché il succo di frutta, sempre legalmente, è un “prodotto fermentescibile ma non fermentato, ottenuto da frutta sana e matura (NDR: appartenente ad un elenco positivo autorizzato), fresca o conservata al freddo, avente il colore, l’aroma e il gusto caratteristici della frutta da cui proviene.” Capisco che sia umiliante doverlo chiarire ad un membro della Commissione Agricoltura, ma soia e riso non sono frutti, ma cereali. I cosiddetti latti di soia e di riso, devono essere etichettati come bevande di soia o bevande di riso.
Ciò detto, non confondiamo il meat sounding con il milk sounding: diversi sono i quadri normativi, e diversi gli orientamento della Corte di Giustizia. I prodotti lattiero caseari godono di una tutela normativa indiscutibile. I termini latte, burro, cacio, formaggio, yogurt e così via non possono essere usati per indicare prodotti diversi (a questo fa riferimento la pronuncia della Corte di Giustizia che ha sanzionato l’abuso di termini di origine animale per prodotti vegani).
I prodotti carnei, invece, sono tutelati dal Decreto Ministeriale 21 settembre 2005, che riserva alcune specifiche denominazioni ad alcuni specifici alimenti: salame, prosciutto cotto, prosciutto crudo, ma non esiste nessuna violazione di norme nazionali né europee se si commercializza un prodotto come bistecca di tofu o scaloppine di soia.
L’onorevole forse ritiene che tali denominazioni generiche debbano essere oggetto di una nuova norma, a tutela del consumatore che rischia di essere ingannato.
L’onorevole forse è preoccupato che chi acquista una bistecca di tofu, possa farlo convinto di acquistare un pezzo di sottofiletto di manzo. Chissà che disappunto: uscire di casa, pensando di farsi una fritturina, e scoprire che i pesciolini di liquirizia che mi hanno venduto al supermercato non sono un prodotto ittico. E con l’agnello di marzapane, come la mettiamo? Mandiamo i Nas a mettere i sigilli in metà delle pasticcerie italiane alla vigilia di Pasqua! Già che ci siamo, facciamolo anche per le uova e il salame di cioccolato. Chissà che rabbia, scoprire di essere stati ingannati in tutti questi casi!
Ma davvero lei pensa che i consumatori siano così incapaci di scegliere, che siano così tontoloni?
Io no, forse ci vorrebbe per loro più rispetto, visto che oltretutto sono elettori.
Leggi anche:
Etichettatura dei prodotti vegan. Marchi e certificazioni tra criticità e opportunità

Scegli i prodotti certificati VEGANOK e sostieni così la libera informazione!