Immaginate di essere invitati a cena a casa di amici, di mettervi a tavola e di trovare ad attendervi un enorme e profumatissimo piatto di spezzatino. Tra un boccone e l’altro, chiacchiere e aggiornamenti sulle ultime novità a casa e sul lavoro, poi l’impulso è di chiedere come sia stata preparata quella ricetta: erano secoli che non mangiavate una carne così tenera e succosa.
“Ah, sì, ho voluto provare una ricetta nuova, è di Golden Retriever: buona vero?” è la risposta, che vi gela il sangue nelle vene. Avete appena mangiato carne di cane e riuscite a provare solo disgusto, senso di colpa e raccapriccio. La domanda, però, è perché: che differenza c’è tra la carne di cane – magari identico a quello che portate ogni giorno a passeggiare al parco – e quella di un maiale, una mucca o un pollo?
Questo è grossomodo l’incipit del saggio “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche. Un’introduzione al carnismo e un processo alla cultura della carne e alla sua industria” della psicologa americana Melanie Joy, edito da Sonda. Un libro che compie un’analisi razionale e approfondita della nostra cultura alimentare, illustrando quello che l’autrice considera la base – nascosta ma ben radicata – della nostra tradizione: il carnismo.
È giusto parlare di “mangiatori di carne”?
Per parlare di carnismo, l’autrice parte da un’analisi dello status quo: quando pensiamo a un vegano, tutti lo identifichiamo con una persona che non mangia carne, pesce e derivati animali. La maggior parte delle persone sa che questa scelta non comprende solo questo aspetto, ma che riguarda anche l’orientamento etico di un individuo: entra in gioco un sistema di credenze più profondo, secondo cui uccidere e sfruttare gli animali per nutrirsene è considerato immorale.
Se un vegano è comunemente colui che sceglie di non mangiare carne perché lo considera un atto immorale, come chiamiamo coloro che scelgono di mangiarla? Di fatto non li chiamiamo, scegliendo il termine “mangiatore di carne”. Una netta differenza rispetto per esempio a vegetariano, dove il suffisso -ariano denota un sistema di credenze in azione: è vegetariano – ma anche vegano – colui che promuove e sostiene attivamente una filosofia di vita o un insieme di principi.
Al contrario, “mangiatore di carne” indica semplicemente l’atto di consumare carne, come se l’individuo che lo compie agisse al di fuori di un sistema di credenze determinato. Nella percezione comune, mangiare carne è qualcosa di dato, acquisito e “normale”; tutto ciò che si distanzia da questo atto è “diverso”, devia dalla norma per rappresentare un’eccezione.
E proprio qui troviamo l’essenza del carnismo, un sistema di credenze – di fatto, un’ideologia – che non sembra affatto tale, perché è così che deve essere: “Se il problema è invisibile, allora ci sarà invisibilità etica” afferma l’attivista statunitense Carol J. Adams, ed è proprio su questa invisibilità che il carnismo affonda le sue radici.
Carnismo: l’ideologia violenta e invisibile teorizzata da Melanie Joy
Melanie Joy parla di ideologia in riferimento al carnismo, e la definizione risulta calzante quando si pensa che un’ideologia è un sistema di credenze condiviso, nonché di pratiche che riflettono tali credenze. Mangiare carne è, nella nostra società, lo status quo: nella maggior parte dei casi, cresciamo consumando carne più volte alla settimana – e perfino al giorno – senza porci nessuna domanda, anzi: mangiare carne e derivati animali è considerata una forma di buon senso, la normalità per stare in salute.
Eppure, è necessario riflettere più a fondo sulla questione, prima di tutto perché il carnismo è un’ideologia basata sulla violenza: non solo gli allevamenti intensivi e i macelli lavorano lontano dagli occhi dei consumatori, ma la maggior parte delle persone rifiuta di sapere – o vedere – come si producono carne e derivati animali. Il rischio, è di non riuscire più a mangiarli.
Di fatto, il consumo di carne deve rimanere invisibile, perché il rischio è che le persone – e quindi i consumatori – mettano in dubbio il sistema e la propria partecipazione a esso.
Come la nostra mente ci difende dalla violenza del carnismo
Il discorso dell’autrice è lungo e complesso, e riguarda molti aspetti della nostra società e del nostro sistema alimentare. Ci vogliamo però concentrare su un aspetto molto interessante, che riguarda la nostra percezione della realtà e il cosiddetto “trio cognitivo”, ovvero un insieme di processi psicologici che la nostra mente mette in atto per giustificare il consumo di carne e continuare a portarlo avanti come consumatori passivi.
- Oggettivazione: percepiamo gli animali come oggetti, per lo più attraverso il linguaggio. Se un maiale diventa bacon, un manzo un hamburger o un agnello una costoletta, è più facile vedere in un animale qualcosa invece che qualcuno e questo aiuta a mettere da parte il disagio morale. L’industria parla di capi, bestiame, unità: anche qui, lo scopo è percepire gli animali come oggetti, parti insignificanti di una filiera produttiva molto redditizia.
- Deindividualizzazione: pensiamo agli animali come astrazioni, come individui dotati di caratteristiche particolari del gruppo a cui appartengono. Quando si pensa a un qualsiasi animale allevato per la produzione di carne, il più delle volte lo si immagina in gruppo, non certo come un individuo dotato di personalità e interessi propri.
- Dicotomizzazione: è il processo che ci porta a inserire gli altri in due categorie diverse, sulla base della nostra opinione. Un fenomeno che riguarda molti aspetti della realtà, e che nel caso degli animali si riduce a una distinzione tra “commestibile” e “non commestibile”. In queste due categorie, ulteriori distinzioni ci portano a scegliere di mangiare o meno animali selvatici o domestici, oppure animali intelligenti (come i delfini) o poco furbi (come le oche). Una dicotomizzazione del tutto arbitraria, basata su credenze personali, che serve solo a giustificare il consumo di carne.
Joy definisce il carnismo come un’abitudine talmente radicata da essere considerata dai più naturale, necessaria e normale. Ma quando diciamo che ci piace la carne parliamo del suo gusto? Della sua consistenza? O piuttosto dell’abitudine che si nasconde dietro al suo consumo, delle tradizioni familiari che associamo a quel determinato alimento? Molto spesso il cibo è legato a emozioni, ricordi e stati d’animo.
È arrivato il momento di sovvertire lo status quo: la vita di miliardi di esseri viventi dipende dalla nostra capacità di fare la connessione e sovvertire regole date per sostenere interessi economici, sfruttamento e tradizioni anacronistiche.
Fonte: Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche. Un’introduzione al carnismo e un processo alla cultura della carne e alla sua industria – Melanie Joy, edizioni Sonda.
Guarda il video con l’intervento della Dottoressa Melanie Joy al VeganFest 2015:
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