Nuovo report ONU: adottare una dieta plant-based è il primo passo per salvare la biodiversità

Un report condotto dal più autorevole think tank a livello mondiale, ribadisce che dobbiamo cambiare il nostro modello alimentare per salvare il pianeta: solo il passaggio a un'alimentazione vegetale può invertire la rotta e ripristinare la biodiversità, distrutta dall'attuale sistema alimentare globale.

Cambiare il sistema alimentare globale, e spostare i consumi verso prodotti plant-based è fondamentale per fermare la perdita di biodiversità: ad affermarlo è un report pubblicato a febbraio 2021 dal Chatham House – tra i più accreditati think tank a livello mondiale – e sostenuto dal programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). Il nostro sistema alimentare è guidato, dicono gli esperti, da una serie di “circoli viziosi” che sono stati alimentati da decenni di crescita economica e aumento della produzione.

Tra questi spicca il paradigma “del cibo più economico”, ovvero la produzione di cibo a basso costo, che comporta però uno spreco superiore di risorse come acqua e suolo, oltre che l’uso smodato di pesticidi e fertilizzanti. Il modello alimentare odierno si basa sulla produzione di cibo economico, che rappresenta una minaccia ambientale ma che allo stesso tempo genera una maggiore domanda da parte del mercato. Questa, per essere soddisfatta, comporta una produzione maggiore, oltre a una maggiore concorrenza – che spinge i costi ancora più in basso. Un circolo vizioso apparentemente senza fine, che sta distruggendo il pianeta.

Il sistema alimentare globale – così com’è strutturato oggi – minaccia l’86% delle specie animali e vegetali già a rischio estinzione, ma non solo: l’agricoltura è la principale causa di cambiamento dell’uso del suolo a livello globale (80%) e di perdita degli habitat. Quando la terra viene convertita per la produzione di colture per il consumo umano o  di mangimi per gli animali d’allevamento – o per fare spazio agli allevamenti stessi – si distrugge l’habitat di animali selvatici, piante e altri organismi come i funghi. La più grande perdita di ecosistemi intatti negli ultimi decenni si è verificata ai tropici, le regioni più ricche di biodiversità del mondo: in soli 20 anni, dal 1980 al 2000, sono andati persi 42 milioni di ettari di foresta tropicale in America Latina a causa dell’allevamento di bestiame, mentre 6 milioni di ettari sono stati distrutti per fare spazio alle piantagioni di olio di palma nell’Asia sud-orientale.

Naturalmente, gli esperti sottolineano anche la connessione tra il sistema alimentare attuale e i cambiamenti climatici, che a loro volta contribuiscono alla perdita di biodiversità: “Il sistema alimentare globale è responsabile di più emissioni di gas serra di qualsiasi altra attività umana. – si legge nel documento – Il cambiamento climatico influisce sulla biodiversità cambiando l’idoneità dell’habitat: questo causa l’estinzione delle specie sensibili,
o le spinge a spostarsi in altri luoghi quando il loro habitat viene occupato da altre specie”.

Il caso Covid-19

Anche l’emergenza sanitaria in atto ha molto a che fare con il modo in cui viene prodotto il cibo nel mondo: come spiegano gli esperti, l’impatto degli allevamenti e della distruzione degli habitat naturali, non si limitano a causare la perdita di biodiversità. A questa situazione è strettamente connessa la diffusione di malattie con potenziale pandemico, esattamente come il nuovo Coronavirus. Quest’ultimo è infatti una zoonosi, il che significa che ha avuto origine in animali non umani, per poi fare un salto di specie e colpire l’uomo.

Il Covid-19 è l’ultima di una serie di malattie infettive che hanno raggiunto livelli epidemici o pandemici negli ultimi decenni. Le nuove zoonosi possono essere causate sia da animali selvatici che da allevamento, e l’espansione delle attività umane come agricoltura e allevamento negli ecosistemi naturali può dare origine a nuove pericolose mescolanze
tra gli animali selvatici, gli animali d’allevamento e gli esseri umani, permettendo agli agenti patogeni di spostarsi tra le
specie più facilmente.

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Riprogettare il sistema alimentare

Gli esperti non hanno dubbi: la soluzione a questo gravissimo problema è legata al rimodellamento del sistema alimentare globale in ogni suo aspetto. Per prima cosa, dallo studio emerge la necessità di un passaggio alle diete plant-based come primo, fondamentale, passo verso la soluzione del problema. Ancora una volta, si sottolinea l’enorme impatto ambientale dei cibi di origine animale rispetto a quelli di origine vegetale; per fare un esempio, gli esperti dichiarano che “se l’intera popolazione statunitense sostituisse la carne di manzo con i fagioli, questo porterebbe a liberare 692.918 km2 di suolo – equivalenti al 42% dei terreni coltivati negli Stati Uniti – per altri usi come il ripristino degli ecosistemi o un’agricoltura più rispettosa della natura”.

Inoltre, spiegano gli studiosi, il passaggio a una dieta plant-based contribuirebbe alla riduzione dell’incidenza delle malattie legate all’alimentazione, associate al consumo eccessivo di carne rossa e lavorata. Allo stesso modo, anche il rischio di pandemie potrebbe essere significativamente ridotto.

Insieme al cambiamento delle abitudini alimentari, è necessario agire anche dal punto di vista pratico: da una parte, rimodellare i sistemi agricoli in modo che siano più rispettosi della natura e, dall’altra, ristabilire gli habitat naturali per permettere alla fauna a rischio di ripopolarli.

Alimentazione plant-based: cosa ne pensano i cittadini?

Anche se è ormai chiara la connessione tra il consumo di alimenti di origine animale e cambiamenti climatici, sono ancora poche le persone decise ad adottare una dieta plant-based per la sostenibilità. A dirlo è il “Peoples ‘Climate Vote“, il più importante e grande sondaggio sui cambiamenti climatici mai realizzato – condotto dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) insieme all’Università di Oxford. La rilevazione ha coinvolto 50 paesi nel mondo e oltre la metà della popolazione mondiale, di cui mezzo milione di persone di età inferiore ai 18 anni. Inoltre, per molti dei paesi partecipanti, si tratta del primo sondaggio condotto su larga scala sul tema del cambiamento climatico.

I dati indicano che il 64% dei partecipanti ritiene i cambiamenti climatici un’emergenza globale, anche se con differenze evidenti tra i diversi paesi: Regno Unito e Italia 81%, Giappone 79%, ma Sri Lanka 55% e Moldavia solo 50%. Tra le soluzioni proposte nel sondaggio per arginare i cambiamenti climatici, c’è anche l’adozione di una dieta a base vegetale: nel complesso, solo il 30% delle persone intervistate ritiene utile alla causa il passaggio a una dieta plant-based. 

I motivi sono differenti. In primo luogo, in alcuni paesi ci sono poche opzioni a base vegetale; in altri, la conoscenza di questa tipologia di alimentazione potrebbe non essere ancora significativa. In altri ancora, le persone ritengono che la dieta sia una scelta personale più che qualcosa che possa essere “promosso”.

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