Seppur lentamente, è evidente che la sensibilità dei consumatori riguardo al modo in cui le aziende producono alimenti di origine animale stia cambiando. Sempre più persone volgono lo sguardo verso alternative vegetali alla carne proprio perché non più disposte a ignorare le sofferenze e la crudeltà che la produzione di un hamburger, una bistecca o un petto di pollo, ma anche di latte vaccino o uova, richiede: le aziende che producono carne sono state costrette a correre ai ripari.
Cambiando i consumi, era ovvio infatti che l’industria della carne adottasse una strategia di marketing per limitare i danni e fornire un’immagine diversa e più sostenibile di sé al consumatore, incentivando l’acquisto di carne o derivati animali prodotti “consapevolmente”. Sempre più aziende, non a caso, hanno cominciato a puntare sul concetto di “benessere animale” all’interno degli allevamenti, come a voler mitigare le sofferenze e la realtà vissuta da milioni di animali ogni giorno che numerose inchieste hanno rivelato negli anni. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: si può davvero parlare di benessere animale quando si sfruttano, imprigionano e uccidono animali per produrre cibo?
Benessere animale: per ora mira alla “sicurezza alimentare”
Stando alle normative attuali, è bene specificare che quando si parla di benessere animale si fa riferimento a questioni strettamente legate alla sicurezza alimentare: come riporta la European Food Authority, stress e scarso benessere possono portare “come conseguenza negli animali una maggiore predisposizione alle malattie trasmissibili, che può rappresentare un rischio per i consumatori, ad esempio tramite le comuni tossinfezioni alimentari causate dai batteri Salmonella, Campilobacter ed E.Coli. Le buone prassi per il benessere degli animali non solo riducono inutili sofferenze, ma contribuiscono anche a rendere gli animali più sani”.
Esistono parametri e criteri scientifici per misurare il grado di benessere degli animali all’interno degli allevamenti (Strategia per il benessere degli animali, 2012-2015): essendo esseri senzienti, è necessario garantire loro condizioni di vita accettabili. Cosa comporta tutto ciò?
Come si misura il benessere animale in Europa
Il quadro normativo europeo sul benessere animale è considerato tra i più severi e completi al mondo. La direttiva 98/58/CE del Consiglio definisce norme minime per la protezione di tutti gli animali negli allevamenti, mentre altre norme UE definiscono gli standard di benessere degli animali da allevamento durante il trasporto e al momento dello stordimento e della macellazione. Direttive specifiche disciplinano la protezione di singole categorie di animali, come ad esempio vitelli, suini, galline ovaiole e polli allevati per la produzione di carne.
Per misurare e valutare il grado di benessere animale, i criteri attuali tengono conto dell’ambiente fisico e delle risorse a disposizione dell’animale, ossia lo spazio, il materiale delle lettiere, ma anche le pratiche di gestione a cui l’animale è sottoposto: in questo caso parliamo della sua alimentazione e del trasporto. I parametri aiutano a registrare il modo in cui ogni animale risponde a questi fattori, a seconda delle proprie caratteristiche (età, sesso, razza). Le reazioni sono quindi valutate utilizzando misurazioni compiute direttamente sull’animale, mediante osservazione o ispezione dell’animale – comportamento, condizioni del corpo, presenza o meno di lesioni – ma possono anche includere rilevazioni ottenute con metodi automatici, come la misurazione del consumo di acqua.
Le misure basate sull’osservazione diretta dell’animale possono quindi essere di ausilio ai politici che devono assumere decisioni su quali siano le condizioni accettabili per gli animali d’allevamento e possono essere utilizzate in supporto ai programmi di monitoraggio e di controllo attuati a livello di azienda, per garantire standard di salute e benessere degli animali e per contribuire alla lotta contro le malattie.
La – dura – realtà degli allevamenti intensivi
Se le norme tentano quantomeno di definire un quadro legislativo che provi a migliorare le condizioni di vita degli animali negli allevamenti, le immagini che ci hanno mostrato e continuano a mostrarci numerose inchieste di programmi tv, testate giornalistiche e associazioni animaliste mostrano una realtà, all’interno degli allevamenti, che con la parola “benessere” non ha nulla a che fare: gli animali all’interno di questi luoghi vivono tra sofferenze, spesso maltrattamenti, privati della libertà e di poter vivere la propria esistenza seguendo i loro istinti naturali.
L’attenzione mediatica è sempre più forte sull’argomento, sintomo che sempre più persone si chiedono cosa comporti e soprattutto come venga prodotto ciò che portano in tavola. Ha senso, per mangiare un hamburger di carne bovina, ridurre in schiavitù un animale senziente, uccidendolo per cibo, soprattutto oggi che esistono migliaia di alternative veg alla carne animale? Ha senso, pur vedendo giorno dopo giorno immagini aberranti di animali uccisi e fatti vivere in condizioni tremende, parlare di benessere animale in relazione all’industria della carne?
Alle aziende non interessa l’etica: interessa continuare a vendere
Ricordiamo che questo concetto nasce dalla necessità delle aziende di continuare a vendere prodotti di origine animale: il “benessere animale” vende, perché mistifica la realtà in cui mucche, maiali, polli sono costretti a vivere la propria vita.
Il nocciolo della questione non è quanto grandi siano le gabbie in cui sono rinchiuse le galline ovaiole o quanto sia “umano” il metodo di macellazione scelto per togliere la vita a suini o vitelli: il problema sta nel comprendere che il concetto di allevamento (intensivo e non) non può coincidere con quello di benessere animale. La privazione della libertà e lo sfruttamento – anche laddove non ci siano situazioni di illegalità – sono alla base del sistema di allevamento e questo è già di per sé sufficiente per far venir meno il concetto di “benessere”.
E soprattutto, se serve rassicurare il consumatore in etichetta sulla presunta eticità della produzione di un prodotto di origine animale, allora viene da pensare che quel tipo di prodotto tanto etico, normale e benefico per l’animale non lo è per sua natura. Nessuna legge, però, interviene per mettere in discussione lo status quo che vige all’interno di questa industria: miliardi di esseri senzienti continuano a essere considerati “macchine da produzione” al servizio dell’uomo; quello che si cerca di modificare è piuttosto la percezione che il consumatore ha di questo sfruttamento. Quanto ancora durerà tutto questo?
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