Quando ero piccolo, un po’ di anni fa, nel parco della mia città, c’era uno spazio abbastanza ristretto, chiamato “Piccolo zoo” e gestito dallo stesso Comune cittadino.
In spazi angusti vivevano volatili, cinghiali, scimmiette, ed altri esemplari, di dimensioni , più o meno grandi.
Le anatre ed i porcellini indiani, tutto sommato, pur disturbati in qualche modo dagli schiamazzi dei visitatori, non se la passavano nella maniera peggiore.
I più sacrificati erano gli animali più grandi, che avevano spazi, addirittura inferiori, a quelli di un “normale” zoo cittadino.
Ricordo, in maniera particolare, le tristi immagini di un’aquila reale, reclusa in una piccola voliera, assieme ad altri volatili, che disponeva, a malapena, dello spazio per aprire le ali.
Ma scene di ordinaria tristezza non finivano qui. C’era un grande cammello, molto vorace, probabilmente anche per il suo stato di prigionia, che mangiava, pressoché tutto quello che gli veniva passato. Così alcuni stupidi, approfittando della vigilanza praticamente inesistente, si divertivano a dare porcherie come caramelle, chewing gum e quant’altro al povero animale, che, nonostante tutto, riuscì a vivere lungamente, anche se dubito in modo felice.
Mi ricordo ancora le grida isteriche di poveri macachi, ammassati in poche ristrette celle e lo “strano caso” dell’insolitamente grande recinzione dei cinghiali, il cui numero aumentava e diminuiva, in periodi di tempo breve, senza una spiegazione coerente. (Il dubbio che qualcuno ne facesse una sorta di “riserva personale”, mi sembra legittimo).
Il piccolo zoo rimase aperto per diversi anni, in stato di discreta incuria, fino a quando, anche sotto pressione di alcuni enti animalisti, ma più probabilmente per tagli alla spese comunali, fu chiuso.
Alcuni giorni fa, leggevo sul web la pubblicità di un grosso bioparco italiano.
Si enfatizzava la differenza tra gli zoo tradizionali ed i bioparchi, appunto, che ne sarebbero gli eredi evoluti.
Gli animali si sentirebbero, finalmente, a loro agio, non essendo più chiusi in gabbie anguste, ma, in ambienti che ne riproducono i vari habitat di origine. I giovani studenti possono vedere come sono fatti questi esemplari, interagendo con loro.
La funzione che viene, ho notato, particolarmente enfatizzata, è la possibilità di far riprodurre, in cattività, famiglie animali che sono in procinto di estinguersi, con un prefigurato re-inserimento futuro nelle loro terre di origine.
In effetti, l’immagine di queste nuove strutture non è stata studiata male.
Gli animalisti non potrebbero dire che gli animali sono chiusi in gabbie, gli studiosi apprezzerebbero il poter “interagire” e conservare alcune razze dall’estinzione, i giovani potrebbero avere il loro “mini-safari” cittadino, ad un prezzo inferiore di un videogioco. Persino alte autorità ecclesiastiche si mostrano compiaciuti del progetto.
Tuttavia, osservando in modo più attento la cosa, anche i non-animalisti potranno rendersi conto di come l’immagine di “bioparco-felix” non convinca.
Premetto, per un informazione corretta, che non ho visitato di persona il bioparco che descrivo, ma, pure senza la riprova visiva, ritengo che gli elementi, forniti principalmente da internet, ma anche da altre fonti, mi possano fare esprimere un parere, certamente personale, sull’argomento, in generale.
Gli ambienti sono un po’ più spaziosi di gabbie e recinti classici, ma pur sempre nettamente inferiori agli spazi naturali, dai quali sono stati prelevati gli esemplari. Stessa cosa si può dire per il clima non adeguato, che sarà sempre motivo di inadeguatezza, per l’ovvia impossibilità di riprodurre climi esotici, artici, o di altra natura, in una realtà occidentale. Gli spazi naturali riprodotti in cattività mi sembrano poi posticci, falsi, sulla falsariga di Gardaland. Non sarà probabilmente un problema di buoni scenografi ma la priorità di creare effetti avvincenti per il visitatore, prima ancora che per gli animali stessi.
La funzione di salvaguardia di alcune razze dall’estinzione potrebbe essere giusta, solo se vista nel paradigma della specie dominante. Mentre si distruggono foreste ed habitat naturali, da una parte, qualcuno, buonisticamente, si preoccupa di salvare gli ultimi esemplari. Mi ricorda molto la situazione delle riserve indiane. Dopo che una razza è stata depredata e ridotta in ginocchio, qualche “buonanima” concede un pezzetto di terra dove vivere, a patto di accettare visite, gite turistiche e farsi notare, mentre si balla con i propri costumi “tipici”.
Per quanto riguarda poi il rapporto dei giovani con gli animali, basterebbe che questi fossero più educati a vivere un po’ più in campagna o visitare parchi naturali (quelli veri) ed avrebbero un’immagine più reale e dignitosa della natura stessa.
A proposito, il piccolo zoo esiste ancora, ma, fortunatamente, è solo un giardino con piante e fiori.
Mi sembra molto meglio così. : )
Scegli i prodotti certificati VEGANOK e sostieni così la libera informazione!

Solo con la partecipazione di tutti potremo fare la differenza per la salvaguardia del pianeta.
Barbara Primo
dice:L’essere umano fa degli enormi sbagli e quando cerca di metterci una pezza fa ancora peggio. 🙁
Che senso ha ridurre le specie in estinzione e poi cercare di recuperare mettendole negli zoo per “proteggerle”… questi atteggiamenti mi sconfortano grandemente. 🙁
L’articolo è molto bello, grazie Leonardo.
Antonio Sutera Sardo
dice:Ma parli del piccolo zoo di Firenze, alle Cascine ! L’alluvione ne fece scempio. Andai a vederlo due giorni dopo ed era…raccapricciante…
Antonio Sutera Sardo
dice:Parli del piccolo zoo delle Cascine a Firenze ? Ci andavo sempre….ma poi l’alluvione del 1966 ne fece scempio. Andai subito sul posto due giorni dopo … ed era raccapricciante la vista di tutti quei poveri animali morti !!! Pochissimi si salvarono.
Barbara Primo
dice:Non credo Leonardo fosse nato nel 1966…
leonardo ciolli
dice:Si, lo zoo è quello…
.. nel ’66 non ero ancora pervenuto : )
le mie descrizioni si riferiscono agli anni settanta ed ottanta
Paola
dice:Perdinci bacco! Certo che è lo zoo delle Cascine… mi ricordo che all’inizio (prima dell’alluvione) si pagava perfino il biglietto… ! E il Cammello si chiamava Canapone! Era dolcissimo fu in quello zoo che nacque la mia passione per la veterinaria, quelle povere bestiole avevano certo bisogno di un dottore!! Io sono nata in Africa e da piccina, quando siamo tornati in Italia, era l’unico luogo dove io potevo respirare l’aria di casa.
Certamente gli unici che se la spassavano, almeno finché non diventavano prosciutti e costatine, erano i cinghiali
Il mio babbo mi ci portava sempre perché lì ero felice e lui mi raccontava le storie dell’Africa e delle carovane… certo oggi con una coscienza etica ed ecologica matura tutto ciò fa inorridire, ma sicuramente la storia ci insegna che non bisogna condannare a priori la cultura di cui siamo figli, l’importante è cercare di non ripetere gli stessi errori… che tanto di nuovi ce ne sono sempre tanti e inimmaginati!
A me piace pensare che Canapone e la Regina (così chiamavo la povera aquila delle Cascine) adesso siano in luogo in cui abbiano scordato gli anni di cattività e possano aver perdonato, permeati dall’amore dell’Assoluto, chi decise a suo tempo di farne testimoni in prigione di un mondo pieno di meraviglie… !
Paolo
dice:Grazie…bel commento, mi fai ricordare alcuni bei momenti che ho passato in quel luogo, condivido molto la tua frase:”la storia ci insegna che non bisogna condannare a priori la cultura di cui siamo figli, l’importante è cercare di non ripetere gli stessi errori…”.