Le immagini diffuse nella serata del 29 maggio da Report – programma di inchiesta in onda su Rai 3 – sono di quelle che non si dimenticano facilmente. Avvalendosi di inchieste e prove audio-visive fornite dall’associazione animalista Last Chance For Animals, il programma Rai svela nuovamente il vero volto di quella che viene considerata, dai più, una delle eccellenze italiane da tutelare e di cui vantarsi all’estero: il Prosciutto di Parma, tra i simboli più conosciuti e amati della tanto rinomata tradizione culinaria nostrana. Ma la realtà, dietro a trovate di marketing e storytelling di facciata, ci parla dell’ennesimo esempio dell’orribile, crudele, condannabile rapporto che abbiamo intessuto con gli animali, appropriandoci dei loro corpi e disponendone nel modo in cui più ci è comodo.
Quante prove ancora serviranno per capire che no, questa più che un’eccellenza è un orrore tutto italiano?
Animali lasciati ad agonizzare senza soccorso, veleno per topi e ratti che corrono liberi negli allevamenti: ecco la qualità del Prosciutto di Parma
Come anticipato, grazie a un approfondito servizio della giornalista Giulia Innocenzi in collaborazione con Greta Orsi e Giulia Sabella, Report porta ancora una volta gli spettatori a vedere con i propri occhi l’orrore che si nasconde dietro un prodotto di origine protetta, uno di quelli che molti vorrebbero ancora tutelare appellandosi a una tradizione culinaria di alto valore e che sottostà a precisi controlli da parte delle autorità. Ma è davvero così?
Non sembra proprio: cominciando da un primo allevamento a Corte dei Cortesi, in provincia di Cremona, la giornalista mostra immagini che fanno accapponare la pelle. Animali lasciati agonizzanti per giorni nei corridoi degli allevamenti, veri e propri scarti ignorati dagli operatori che non li soccorrono né portano in infermeria. Quei maiali non servono più e come tali vanno ignorati e lasciati morire, mentre attorno a loro corrono ratti che si infiltrano nei recinti e possono essere anche mangiati dai maiali. Peccato che in tutto l’allevamento, senza che sia adeguatamente inserito in appositi contenitori, sia lasciato in giro un rodenticida altamente tossico che, visto che i ratti vivono, muoiono e vengono consumati dai maiali, finisce anche nella carne dei maiali poi uccisi per diventare Prosciutto di Parma. Senza contare, poi, che la presenza di ratti non fa che impennare il rischio di contagio e diffusione di malattie zoonotiche, un problema che abbiamo già imparato a conoscere negli ultimi anni.
La sudditanza degli enti al Consorzio per sanzioni – e controlli – inesistenti
Verrebbe da chiedersi come mai, per un prodotto tutelato da un consorzio, non ci siano controlli che ne attestino la “qualità”. Pur non essendoci un registro pubblico, per far parte del Consorzio del Prosciutto di Parma si deve infatti sottostare a un disciplinare e ai controlli del CSQA, uno degli enti certificatori più prestigiosi in Italia. Dal 2020 il CSQA ha iniziato ad occuparsi dei controlli di conformità di aziende e allevamenti che riforniscono il Consorzio: un’attività iniziata con dovizia e rigore, specie a confronto con i controlli molto leggeri condotti prima dell’inizio del suo incarico.
Peccato però che questo rigore, questa attenzione alle regole e le numerose sanzioni che hanno cominciato a girare tra i vari allevamenti non siano andate giù a molti degli attori della filiera, multati alle volte anche per più di 4mila euro. Ecco che magicamente, come dimostra un audio ottenuto da una riunione dei dirigenti di CSQA, si chiede agli operatori di cambiare musica, accantonando il piano di sanzioni inflitte col pugno duro e ripristinare controlli molto più lassisti. Lo rivela uno stesso operatore sotto copertura, intervistato proprio da Innocenzi per il servizio Report: “Le non conformità? Ci veniva detto di non rilevarle“, instaurando un sistema che chiaramente ha dato agli allevatori il via libera a fare come meglio credevano impunemente.
E c’è da dire che i dipendenti della CSQA si sono lamentati di questa ingerenza da parte degli allevatori, rivolgendosi al Ministero delle Politiche Agricole per denunciare tutto ciò in una lettera, evidenziando come non solo non venissero effettuati campionamenti genetici per verificare la provenienza dei suini, ma che ci fosse un vero e proprio ordine di non segnalare alcuna non conformità: una vera e propria sudditanza dell’ente controllore nei confronti del controllato. Il risultato? Il CSQA è stato sospeso per un breve tempo dal suo incarico, per poi essere riconfermato senza indugi dallo stesso Ministero poco dopo.
No, non è un caso limite: le non conformità sono ovunque, anche se non sono segnalate
Raggiunto proprio da Giulia Innocenzi per commentare questa decisione sicuramente contraddittoria, il Ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida mette le mani avanti e, come da prassi, ammonisce dal mettere a repentaglio la buona reputazione del cibo Made in Italy: “Dobbiamo fare molta attenzione a diffondere l’idea che i prodotti italiani non siano prodotti secondo criteri di qualità, perché non è così”.
Peccato che le immagini contraddicano senza appelli Lollobrigida. Qualche esempio? In un allevamento modenese che conta fino a 13mila suini, appartenente al consorzio del Prosciutto di Parma e dove il CSQA non aveva rilevato alcuna non conformità, le immagini degli investigatori e attivisti di Last Chance for Animals hanno riscontrato recinti sporchissimi, con feci e urine finiti persino nei contenitori e nelle mangiatoie per gli animali, nonché animali feriti, con piaghe, ernie ombelicali e code infette per sospetto cannibalismo nel reparto rimanenze. Ma non solo: le telecamere nascoste mostrano anche maiali picchiati con un chiavistello, tirati per la coda, presi a calci o dalle orecchie per fargli fare un volo nel corridoio. Un maiale, infine, viene trascinato fino al reparto rimanenze con una corda legata alla zampa.
Il problema ambientale legato agli allevamenti intensivi
Oltre all’evidente problema del benessere animale – un qualcosa che non viene nemmeno previsto o considerato dal disciplinare CSQA per il Prosciutto di Parma, tanto che viene menzionato soltanto una volta e di sfuggita, in una riga – agli allevamenti di maiali legati al Consorzio vengono contestanti anche evidenti problemi per la salute umana e per l’ambiente.
Come cita il servizio di Report, la Lombardia è la prima regione italiana per maiali allevati ed è al centro di una procedura di infrazione europea contro l’Italia per la violazione della direttiva nitrati, che prevede sanzioni per la presenza di liquami tossici e pericolosi per la salute umana, che possono finire nelle falde acquifere contaminandole.
In un allevamento della provincia di Brescia i liquami fuoriescono dai contenitori, mentre carcasse di maiali deceduti sono lasciate marcire all’aperto. Una situazione che, fortunatamente almeno in questo caso, è stata prontamente punita dalle forze dell’ordine e dalle autorità sanitarie, che hanno inflitto una sanzione di 25mila euro all’allevamento imponendo inoltre il vincolo sanitario. Una orrore che si riscontra anche in un altro allevamento lombardo, in provincia di Cremona, dove le celle frigo dove dovrebbero essere conservate le carcasse sono lasciate aperte per settimane: nonostante diversi controlli negli anni e numerose sanzioni, come mostra il servizio di Report, questo allevamento continua ad avere animali sporchi, maiali malati in infermeria e persino un’infestazione di blatte.
Un’eccellenza? Il Prosciutto di Parma è in realtà un orrore tutto italiano
Il CSQA non sarà formato né può valutare il benessere animale, ma nel disciplinare rivolto al Prosciutto di Parma si dimostra molto ferreo nello stabilire la delimitazione territoriale o la marchiatura del prodotto che italiani e non decantano da tempo. Merito anche di una vera e propria campagna sensazionalistica di marketing e storytelling, per cui il Prosciutto di Parma è un prodotto iconico e di altissima qualità grazie “al vento marino della Versilia, al profumo dei castagni” che proprio a Parma si incontrano ai piedi degli Appennini per creare un’eccellenza italiana.
Ma in realtà né vento né castagni hanno niente a che vedere con la produzione del prosciutto, che in Parma al massimo vede un centro strategico a livello commerciale più che un luogo d’elezione benedetto da una conformazione geografica particolare.
Il mito del Prosciutto crudo di Parma è quindi soltanto tale: una leggenda che ha avuto la fortuna di attecchire e ora rappresenta il nostro Paese in tutto il mondo, tanto che la CNN lo ha inserito nella lista dei 50 cibi migliori al mondo al 31esimo posto, dietro soltanto a pizza e lasagne per ciò che concerne l’Italia. Peccato che dietro questa facciata iconica si nasconda il vero volto dell’industria legata a questo prodotto: una realtà fatta di sanzioni mai comminate e non conformità evidenti non rilevate; di denunce da parte di operai e operatori del settore insabbiate e mai portate avanti; di un mito da difendere a tutti i costi pur ignorando il costo di questo business per la salute di animali, persone e ambiente.
Il colmo? Il fatto che la giornalista Giulia Innocenzi provi a denunciare, a far presente al direttore del Consorzio del Prosciutto di Parma cosa succede negli allevamenti e lungo la filiera dl prodotto tutelato dalla sua associazione, ma senza successo: Stefano Fanti non solo la ignora, ma fugge il confronto con una realtà che ci è ancora troppo difficile mandar giù, quando quello che dovrebbe essere indigesto oggigiorno è una tradizione crudele che per egoismo e cecità ci ostiniamo ancora a difendere in nome di una sorta di intoccabile identità culinaria.
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