Dal 1975 al 1984 la vendita di benzodiazepine (tranquillanti minori), di antidepressivi e di neurolettici (tranquillanti maggiori) è aumentata rispettivamente dell’80%, del 119%
e del 29%. Nel caso delle benzodiazepine l’ininterrotto incremento, registrato nel corso degli ultimi 10 anni, testimonia l’espansione di fenomeni di cronicità e di farmacodipendenza.
Dati ancora più recenti (ISTAT, 1994) ci informano che in Italia sono stati venduti ed ingeriti qualcosa come un miliardo di pasticche di tranquillanti minori. Questa categoria di psicofarmaci è senza dubbio la più venduta e consumata in assoluto, costituisce uno dei maggiori affari per le case farmaceutiche e il suo utilizzo vastissimo è una nuova prassi sociale. I motivi di tale successo stanno prevalentemente nell’intensa e massiccia attività persuasiva del messaggio pubblicitario dei fabbricanti di psicofarmaci, tanto che all’equazione più farmaci = più salute nessuno sembra ormai sottrarsi. Una moltitudine di “ansiosi”, “depressi”, e “visionari” si offre, mani e piedi, al mercato degli “stupefacenti” psicofarmaci, al punto che numerosi studi sull’uso di queste sostanze mostrano la portata amplissima di questo fenomeno.
Il consumo di psicofarmaci va infatti riferito sia ad una popolazione “specifica” in contatto con i servizi psichiatrici, sia ad una popolazione più vasta ed eterogenea che passa dalla medicina di base o da strutture non strettamente sanitarie (case per anziani, istituti di accoglienza. comunità, carceri, etc.).
L’analisi sulla distribuzione del fenomeno appare dettagliata e puntuale, negli studi a carattere epidemiologico nessun fattore sembra essere trascurato; tutto quanto ne deriva, al di là delle statistiche, ci conforta (si fa per dire) nell’idea che la prescrizione e la conseguente assunzione di sostanze farmacologiche si traduce in una vera e propria paralizzante invasione chimica. La diffusione, poi, di una cultura-visione medicalizzata in risposta al disagio/follia e al tentativo di spiegarla e di metterla a tacere apre il problema della cosiddetta autoprescrizione.
Ed è solo a questo punto che scatta l’allarme, “scientifico” e sociale. Uno studio realizzato a Verona nel 1980 rivela che tale pratica riguardava, e presumibilmente riguarda, il 25% delle prescrizioni complessive di sostanze psicotrope o psicoattive. Si noti che gli addetti ai lavori soltanto nella valutazione del fenomeno autoprescrittivo utilizzano le parole “psicotrope” o “psicoattive”(ovvero “droghe”), riferendosi agli psicofarmaci. Una finezza puramente linguistica che svela un fatto semplicissimo: “se ci si prescrive un ipnotico, un ansiolitico, si è drogati, se ce lo prescrive un medico (psichiatra) si è malati. L’ipnotico può essere così allo stesso modo una droga, se decidiamo di assumerlo autonomamente, una medicina se ce lo prescrive unopsichiatra. Non c’è niente di più chiaro, in questo caso, della lingua inglese per descrivere tale confusione: in inglese tanto le droghe illegali quanto gli psicofarmaci si chiamano drugs” (G. Bucalo, 1996).
Collaterale, anche per i suoi effetti, è il nodo, la sfida per tutta la psichiatria (compresa quella “alternativa”) del cosiddetto “signor-paziente non responder”, di colui, cioè, che non risponde “positivamente” al trattamento. Il “signor-paziente farmaco resistente”, è poco narrato nella letteratura scientifica e farmaceutica poiché prova parziale, ma significativa, di sconvenienti insuccessi terapeutici ed al cospetto del quale, tralasciando qualunque fredda statistica, lo psichiatra non manca di accanirsi tanto più è “resistente”, gettando così la maschera di una pretesa e presunta scientificità. A questi “signori-pazienti resistenti” molto spesso si finisce per praticare, con il pretesto della pericolosità sociale, la classica
contenzione fisica e psichica o la ancor più classica e ortodossa terapia elettroconvulsivante (elettroshock). Si può vedere quanto l’arredo e il dispositivo psichiatrico sia in costante metamorfosi, si estenda sottilmente da dentro a fuori e viceversa. Dalle fascette di contenzione, dalle docce fredde alla fredda chimica dei farmaci, vere camicie di forza fatte indossare con zelo. In tal caso si può davvero dire che per la psichiatria solo quando è soddisfatto il criterio della docilità e/o dell’annientamento psicofisico si è “guariti”. A tutto questo si deve aggiungere che sono del tutto irrilevanti le “novità” intervenute nel settore della psicofarmacologia dagli anni ’70 ad oggi e che molte di quelle molecole presentate come panacea di tutti i mali, altro non sono che copie di molecole ampiamente note e già sperimentate (esempio: la clozapina, la fluoxetina etc.). Né gli entusiastici e tanto decantati studi nel campo delle neuroscienze chiariscono molto sulla presunta natura organica e sulla eziologia dei “disturbi mentali”:
“Ancora una volta usiamo qualcosa (gli psicofarmaci) di cui sono certi i danni, per curare qualcosa (le “malattie mentali”) di cui non siamo affatto certi. Se non abbiamo prove dell’esistenza della schizofrenia, infatti, possiamo essere certi della discinesia tardiva. Così come certi e documentati sono i danni provocati al cervello, alla mente e all’esistenza di chi è sottoposto alle altre terapie psichiatriche” (G.Bucalo, 1996).
In sostanza tutto sembra essere fortemente condizionato da provati interessi economici, al punto che più di un dubbio può essere sollevato (gli stessi ricercatori lo fanno) di fronte alla valutazione di efficacia degli psicofarmaci in ambito psichiatrico.
Ulteriori approfondimenti: http://oasi.firenze.net/
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