La scienza indica metodi alternativi e più affidabili, ma in Italia le cavie sono un business.
Lacrime di coccodrillo. Come quelle della famosa genetista milanese, che però, vista l\’aria che tira, chiede l\’anonimato: «Successe qualche anno fa. Stavo iniettando una sostanza cancerogena ad una cavia. Un gesto che, in più di vent\’anni di ricerca oncologica, avrò ripetuto un migliaio di volte. D\’un tratto afferrò l\’ago con la zampina rosa, non per respingerlo ma per conficcarlo ancor più. E mi guardò diritto negli occhi. Sono scoppiata a piangere». Scusi, ma che c\’è di male? Sorrisino. «Sa, in questo ambiente le invidie sono tante. E già i soldi arrivano col contagocce…»
Insomma, i pentiti non sono tutti uguali. Ma, per fortuna, c\’è anche chi esce allo scoperto fregandosene del programma di protezione. Come il microbiologo Pietro Croce e il cancerologo Giulio Tarro, un tempo «vivisettori accaniti» e oggi attivi testimonial della Limav, la Lega Internazionale Medici per l\’abolizione della Vivisezione, che schiera già 340 iscritti in Italia e 4000 nel mondo.
Un movimento d\’opinione che sta attuando una silenziosa rivoluzione in un mondo spesso agitato dalle chiassose intemperanze dell\’animalismo d\’occasione. E che, da sempre, schiera le coscienze su due fronti opposti e incompatibili, barbarie e sviluppo, separati dal confine del più brutale paradosso della modernità, quello che accredita la disumanità nel nome del progresso.
Questo martirio silenzioso e terrificante coinvolge ogni anno più di 1 milione di animali in oltre 500 laboratori italiani. «Ma nella realtà, sono quasi il doppio», segnala Bruno Fedi, primario anatomo-patologo a Terni e vicepresidente Limav. «Ogni bestiola sopravvissuta a un esperimento, infatti, viene automaticamente sottoposta a un altro: nei laboratori non si getta via nulla». Alle accuse di crudeltà i ricercatori oppongono la loro buona fede, condensata nel vecchio ricatto morale corredato da allargamenti di braccia: «E\’ meglio che muoia una scimmia o un bambino?» Ma una terza via, oggi, è possibile. I metodi alternativi alla vivisezione, infatti, esistono.
Un esempio per tutti: negli Usa, l\’Istituto Nazionale del Cancro è passato da 6 milioni di animali immolati ogni anno a 30mila. E non certo per motivi etici: ma perchè i sistemi alternativi sono considerati più affidabili sotto il profilo scientifico. E sono persino meno onerosi. Dieci anni fa lo studioso inglese Nike Jukes aveva già messo a punto un repertorio di oltre 100 metodi più attendibili e meno costosi della vivisezione, che assorbe quasi il 50 per cento dei budget dei laboratori. Basandosi su un assunto, quello della trasferibilità degli esperimenti dall\’animale all\’uomo, considerato ormai assai poco scientifico. «Basti dire che l\’uomo possiede 46 cromosomi, ognuno dei quali contiene 200mila geni», dice il professor Fedi.
E aggiunge: «Sulla esizialità della cicuta Socrate potrebbe dire qualcosa: ebbene, per le pecore è una ghiottoneria. La morfina eccita il gatto, mentre qualche anno fa un antioncogeno testato sugli animali per poco non ha mandato all\’altro mondo due miei pazienti». Altri esempi di errori storici: un farmaco contro l\’artrite, innocuo sulle bestiole trattate, si è rivelato letale per l\’uomo. La penicillina a suo tempo risultò tossica per la cavia. E via di questo passo. «Un elenco interminabile che dimostra una sola cosa: che la sperimentazione animale è la più crudele e colossale truffa della storia della scienza», accusa Clelia A. Rigoni, vicedelegato Oipa (Organizzazione Protezione Animali) per l\’Italia.
Ma quali sono le alternative già praticabili? Dice il professor Fedi: «Risponderò come risposi al farmacologo Silvio Garattini, che nel corso di un dibattito mi apostrofò così: insomma voi medici antivivisezionisti volete sostituire gli esperimenti su cellule animali con altri su quelle di pomodoro? No, replicai io, con esperimenti su cellule umane. Quelle, per esempio, dei tessuti sani e inutilizzati, residui di interventi chirurgici». Ma non solo. In tossicologia e farmacologia l\’uso di colture in vitro dà già ottimi risultati: negli ultimi 7 anni, un importante gruppo europeo ha testato l\’80 per cento dei suoi prodotti su colture di cellule. Per non parlare delle prospettive spalancate dall\’informatica, che permette di simulare le reazioni biochimiche fra molecole e farmaci».
Perchè, allora, in Italia le tecniche alternative restano un tabù? Il professor Fedi va a colpo sicuro: «Perchè l\’erogazione di finanziamenti ministeriali passa per consuetudine attraverso pseudoricerche preliminari sugli animali, per ignoranza e pigrizia considerate più affidabili. Infatti basta segnalare l\’assenza di cavie per vedere dilatare all\’infinito tempi e burocrazia delle sovvenzioni. Idem per le sponsorizzazioni e le raccolte di fondi.
In teoria, la legge definisce come prioritaria la ricerca con metodi alternativi alla vivisezione. Ma nella pratica lascia al responsabile di istituto tanto la facoltà di decidere la procedura che di ricorrere all\’anestesia, obbligatoria salvo le solite eccezioni (in Inghilterra vi si fa ricorso solo per 1 esperimento su 3). Gianluca Felicetti, direttore della Lav (Lega Antivivisezione): «Siamo l\’unico Paese al mondo a riconoscere per legge l\’obiezione di coscienza alla vivisezione per studenti e ricercatori.
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E la vigilanza? Zero. Nel Paese in cui per costituire una srl occorre l\’autorizzazione del presidente del Tribunale, nessuno si preoccupa di vigilare sull\’ultimo olocausto legalizzato.
Articolo di Tiziana Abate
Tratto da: lanazione.quotidiano.net
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