Nell’ultima settimana è stata diffusa la notizia che il tribunale del lavoro di Norwich si è pronunciato con una sentenza secondo la quale il veganesimo etico (1) è paragonabile a una religione o a un credo filosofico e, pertanto, non può essere causa di discriminazione. La pronuncia, che non ha valore di precedente e che costituisce un procedimento preliminare e distinto rispetto alla causa di impugnazione del licenziamento che la ha generata (2), è stata salutata come una sentenza “storica”, le cui implicazioni – soprattutto nel mondo dei rapporti di lavoro- sono ancora tutte da immaginare e potrebbero dar luogo ai più vari casi di obiezione di coscienza.
Avevamo parlato della questione (resa pubblica a Dicembre 2018), in questo articolo:
“Mi hanno licenziato perché sono vegano”: il dipendente fa causa al datore di lavoro
Il tribunale di Norwich, nella persona del giudice Robin Postle, che si pronuncerà in un secondo momento sulla liceità del licenziamento, ha dichiarato che il “veganesimo etico” rientra nell’ambito dei diritti garantiti dall’Equality Act, una legge del 2010 sull’eguaglianza di trattamento che vieta le discriminazioni per motivi di credo, di sesso, di razza e di orientamento sessuale.
Nel dettaglio, nel Regno Unito, per essere soggetta alla protezione accordata dall’Equality Act, una convinzione filosofica deve: essere praticata sinceramente, essere una convinzione profondamente radicata nel soggetto e non semplicemente un’opinione o un punto di vista basato sullo stato attuale delle informazioni disponibili, coinvolgere un aspetto sostanziale della vita e del comportamento umani, nonché raggiungere un certo livello di cogenza, serietà, coesione e importanza ed infine essere degna di rispetto in una società democratica, essere compatibile con la dignità umana e non essere in conflitto con i diritti fondamentali degli altri individui.
A ben guardare, la sentenza ha già un precedente, nella più autorevole Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e un ulteriore e solido fondamento giuridico nell’art 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali che sancisce incontrovertibilmente – nel suo primo paragrafo – che ogni persona ha il diritto «alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione» e di manifestare tali convinzioni individualmente o collettivamente, in ambito pubblico o in privato, senza che tali manifestazioni possano essere oggetto di restrizioni diverse da quelle eventualmente stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Proprio su questo presupposto, già nel 1991, la Corte Europea dei Diritti Dell’uomo, pur avendo respinto le istanze del ricorrente per motivi procedurali, nel caso N. 18187/91 C.W. contro il Regno Unito, aveva dichiarato che lo stile di vita vegan godeva della tutela prevista dall’art 9, paragrafo 1 della Convenzione (3). Non solo, ma anche davanti alla legge statunitense, il veganismo etico è stato più volte oggetto di analisi, finalizzate a comprendere se soddisfa i criteri per la definizione di “religione o credo filosofico” ai sensi della legge statunitense.
Se nel mondo anglosassone il tema è stato oggetto di analisi approfondite che hanno coinvolto non solo esperti di diritto ma anche di etica, da noi l’argomento è ancora troppo spesso affrontato in modo superficiale, ridotto a una caciara rissosa tra vegani e onnivori. La stessa sentenza in parola si potrebbe prestare a una lettura strumentale, da parte dei detrattori della scelta di vita vegan, che basandosi all’equivalenza etica vegana =religione potrebbero sostenere, e non sarebbe la prima volta, che i vegani siano una setta, agitata da un fanatismo simile a quello religioso.
Non possiamo dimenticare che in un certo bieco immaginario collettivo il vegano è spesso ritratto come un bizzarro estremista che mangia alimenti dai nomi impronunciabili, pratica il digiuno purificatore, ama più gli animali degli esseri umani, autoproduce i propri cosmetici, comunica con i messaggi di luce, e combatte quotidianamente una guerra interiore per resistere alla tentazione della porchetta e sfoga la sua frustrazione sugli onnivori mangia cadaveri, per finire in risse ove gli onnivori brandiscono salami e costolette, a sfregio della scelta di vita di chi rinuncia ai prodotti di origine animale.
La realtà, per fortuna, è assai diversa: i vegani e i vegetariani sono una popolazione virtuosa, attenta a ciò che compra e a chi lo produce, ma soprattutto generalmente animata da un desiderio di sintonia con il mondo, che prova compassione per i deboli e gli indifesi, che cerca di vivere in equilibrio con la natura e che crede in una società solidale, pacifica e armoniosa. Certo, ci non mancano episodi di estremismo, ma essi sono presenti nella misura in cui sono presenti in altri gruppi di cittadini. C’è da sperare che la sentenza di Norwich venga compresa nel suo senso etico e giuridico più profondo e che porti ad una maggiore comprensione delle istanze vegan, senza strumentalizzazioni ed eccessi di semplificazione e che sia uno strumento di maggior comprensione di una scelta personale, intima, profonda ma che, in una società democratica, è degna di tutela in quanto non lesiva delle libertà individuali.
Note
[1] Nella sua accezione corrente è veganesimo etico quello non limitato ad una scelta alimentare, ma che esclude ogni forma di sfruttamento degli animali, compreso l’utilizzo di qualsiasi prodotto di origine animale o testato sugli stessi.
[2] Il caso riguarda la vicenda di Jordi Casamitjana, 55 anni, dipendente di un’ associazione per la difesa dei diritti degli animali, che sostiene di essere stato ingiustamente licenziato dopo aver scoperto e divulgato l’informazione che parte del fondo pensione investito dall’associazione era stato allocato in azioni di un’azienda che fa esperimenti sugli animali.
[3] “The Commission finds that the Vegan convictions with regard to animal products fall within the scope of Article 9 para. 1 (Art. 9-1) of the Convention” in: caso N. 18187/91 C.W. contro il Regno Unito.

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