Roma come New York: anche in Italia arriva l’orologio del clima

Ci restano poco più di 6 anni prima che la crisi climatica diventi irreversibile: per ricordarlo, è stato installato a Roma il primo climate-clock, alla vigilia della Giornata Mondiale dell'Ambiente 2021. In questa occasione, ribadiamo che quella tra climate change e alimentazione è una connessione che non si può più trascurare.

Oggi, come ogni 5 giugno fin dal 1972, si celebra la Giornata Mondiale dell’Ambiente. Proprio alla vigilia di questa giornata è stato installato a Roma l’orologio del clima, sulla facciata del Ministero della Transizione Ecologica. Esattamente come quello comparso lo scorso settembre su un grattacielo nel cuore di Manhattan, è lì per ricordarci che ci resta poco tempo prima che la crisi climatica diventi irreversibile. Poco più di 6 anni e 7 mesi, durante i quali dovranno essere prese tutte le misure necessarie per limitare l’innalzamento della temperatura media della Terra a 1,5°C, come previsto dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015.

Nelle condizioni di inquinamento attuali, sarà impossibile rispettare questa soglia e le conseguenze per il Pianeta saranno drastiche. Tra queste siccità, fenomeni atmosferici anomali, incendi e scarsità di acqua, in un crescendo di problematiche ambientali devastanti. Bisogna agire, e in fretta: anche in Italia si cerca di creare consapevolezza su un tema così stringente. “La CO2 è come il sale, indispensabile alla nostra vita, ma velenosa se in eccesso“, del chimico James Lovelock; e “La Terra non è un’eredità ricevuta dai nostri Padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli“, del Capo nativo americano See-ahth saranno solo due delle citazioni di scienziati, artisti e attivisti che compariranno sull’installazione.

Un gesto simbolico ma di estrema rilevanza da parte del Ministero della Transizione Ecologica, istituito dal Governo Draghi per occuparsi delle politiche ambientali e di sviluppo sostenibile. La rotta potrebbe essere stata tracciata lo scorso marzo dal Ministro Roberto Cingolani, che durante la sua prima conferenza dopo la nomina, si è pronunciato apertamente contro gli alimenti di origine animale per motivi di salute e di tutela ambientale:  “Sappiamo che chi mangia troppa carne subisce degli impatti sulla salute, allora si dovrebbe diminuire la quantità di proteine animali sostituendole con quelle vegetali. D’altro canto la proteina animale richiede 6 volte l’acqua della proteina vegetale, a parità di quantità, e allevamenti intensivi che producono il 20% della CO2 totale. Allora, modificando un modello di dieta e aumentando le proteine vegetali, avremmo un cobeneficio migliorando la salute pubblica, diminuendo l’uso di acqua e producendo meno CO2“.

Il ruolo fondamentale degli ecosistemi

Il tema della Giornata Mondiale dell’Ambiente 2021 è il “Ripristino degli Ecosistemi”: da oggi è ufficialmente avviato il Decennio delle Nazioni Unite per il Ripristino dell’Ecosistema, introdotto a livello globale per limitare i danni che le attività umane hanno inflitto agli ecosistemi negli ultimi decenni, ma anche e soprattutto per invertire il degrado degli ecosistemi. Tra i suggerimenti e le call to action ai cittadini, l’invito a scegliere una dieta plant-based sembra marginale, limitato a un breve paragrafo all’interno di un opuscolo di oltre 20 pagine. Ma è davvero sufficiente?

Viviamo in un’epoca che ci costringe a fare i conti con i cambiamenti climatici, l’inquinamento atmosferico e l’estinzione di specie animali e vegetali, con la prospettiva di un futuro sempre più precario. Il nodo nevralgico della questione è fermare la deforestazione che, secondo la FAO, continua a livello globale a un ritmo di 10 milioni di ettari all’anno.

La distruzione delle foreste provoca la distruzione di ecosistemi che rappresentano l’habitat naturale di centinaia di specie vegetali e animali, che vivono in equilibrio perfetto; quando questo si rompe per mano dell’uomo, si va incontro alla perdita di biodiversità, che già di per sé rappresenta un dramma dal punto di vista ambientale. Ma non solo: la scienza spiega che c’è correlazione tra la diffusione di pandemie, come quella da Covid-19, e la distruzione degli ecosistemi operata dall’uomo.

Secondo gli esperti, la perdita di biodiversità porta alla presenza in un determinato habitat di poche specie, invece delle molte che sarebbero previste in natura. Queste sono le specie che si adattano più facilmente ai cambiamenti, e che tendono a ospitare agenti patogeni che possono trasmettersi all’uomo.

Qui, entra in scena il sistema alimentare globale, basato sulla richiesta di proteine animali, che viene soddisfatta con la produzione intensiva negli allevamenti. Il cerchio si chiude: l’allevamento intensivo è legato non solo all’emissione di sostanze altamente inquinanti, ma anche alla deforestazione necessaria per fare spazio agli allevamenti. Secondo l’ONU, il sistema alimentare globale minaccia l’86% delle specie animali e vegetali già a rischio estinzione. Quando la terra viene convertita per la produzione di colture per il consumo umano o di mangimi per gli animali d’allevamento – o per fare spazio agli allevamenti stessi – si distrugge l’habitat di migliaia di animali selvatici, piante e altri organismi come i funghi.

Salvare gli ecosistemi per salvare il Pianeta

La chiave di tutto sta quindi nella necessità di preservare l’ambiente dall’azione invasiva dell’uomo, a beneficio del Pianeta ma anche della salute pubblica. Sì, perché la questione non è “se”, ma “quando” dovremo affrontare nuove pandemie, la maggior parte delle quali saranno delle zoonosi (derivanti, quindi, da un contagio uomo-animale).

Gli studiosi non hanno dubbi, la soluzione più rapida ed efficace sarebbe il passaggio netto alle proteine di origine vegetale. Un settore, questo, che ha visto nel 2020 – proprio con lo scoppio della pandemia – un’accelerazione dei consumi, legata a questioni di salute tanto quanto a questioni di sostenibilità ambientale.

Dal nostro punto di vista, le campagne di sensibilizzazione che puntano i riflettori sulla questione ambientale sono fondamentali, ma centrano solo in parte il focus della questione. Il più delle volte girano attorno al problema reale, la produzione alimentare insostenibile, come se si trattasse di un dettaglio da lasciare sullo sfondo. Invece no: è importante ricordare che è necessario ridurre il consumo di carne per fermare la crisi climatica. Finora, i tentativi di ridurre le emissioni di gas inquinanti si sono concentrati sulla produzione di energia elettrica, sui trasporti e sull’industria. Tutto questo è marginale, però, se paragonato al 30% di emissioni globali legate alla produzione di cibo.

Laura Di Cintio


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