Parlare di pesca sostenibile è impossibile: a dimostrarlo è Seaspiracy, il nuovo documentario disponibile dal 24 marzo su Netflix. Un docu-film che segue le orme di Cowspiracy (2014), il pluripremiato documentario sull’impatto degli allevamenti, per puntare i riflettori sulla conservazione degli oceani. Siamo abituati a pensare al nostro impatto sui mari e sugli oceani in relazione alle tonnellate di rifiuti di plastica che vengono disperse ogni giorno, ogni ora e ogni minuto nelle acque di tutto il mondo. Anche se l’inquinamento da plastica è uno dei problemi ambientali più grandi del nostro tempo – con 150 milioni di tonnellate di rifiuti che galleggiano nel mare – l’impatto che l’uomo ha sui mari e sui suoi ecosistemi va ben oltre questa aberrazione.
La pesca, e soprattutto la pesca intensiva e illegale, sta distruggendo i mari a una velocità inimmaginabile. Con un lavoro di indagine senza precedenti, Seaspiracy mette in luce il modo in cui la politica, l’industria della pesca e persino le organizzazioni ambientali, si uniscano e in qualche modo collaborino per contribuire alla devastazione dei mari. Ma perché è fondamentale lanciare questo allarme? I mari non sono solo l’habitat di migliaia di specie animali e vegetali, ma sono essenziali anche per la nostra sopravvivenza: basti pensare che producono la metà dell’ossigeno che respiriamo, mentre assorbono circa un terzo delle emissioni di gas inquinanti create dall’uomo. In più, dagli anni ’60, sono stati fondamentali per regolare la temperatura della Terra, assorbendo il calore in eccesso dovuto alle attività umane.
L’uomo, invece, è stato in grado di distruggere in pochi decenni il 29% delle specie ittiche commerciali; uccidiamo 650 mila animali marini ogni anno tra balene, delfini e foche, massacrando 73 milioni di squali all’anno (ben 30 mila ogni ora) per la loro carne o “per errore”. In Asia si consumano enormi quantità di zuppa di pinne di squalo, considerata un simbolo di ricchezza e un “elisir di lunga vita”: lo sterminio di questi animali è legato anche a questa tradizione secolare, che non accenna a fermarsi, nonostante sia stato più volte dimostrato che le pinne di squalo non apportino benefici significativi per la salute.
La distruzione degli ecosistemi acquatici porta dunque con sé un pericolo per la sopravvivenza di tutte le specie, oltre ad avere un risvolto etico che non possiamo più ignorare. Il documentario mostra quello che avviene ogni anno nella baia di Tahiji, nel sud del Giappone: migliaia tra delfini e balene vengono sterminati dalle navi giapponesi, in una vera e propria mattanza senza spiegazioni né giustificazioni. Tanto più se si pensa che dal 1986 vige il divieto internazionale di caccia alle balene.
Si potrebbe pensare che questa attività abbia a che fare con l’industria dei parchi acquatici, ma non è così: gli animali non vengono catturati per poi essere messi in cattività, vengono letteralmente sterminati. Il motivo è spiegato chiaramente: i delfini e le balene sono animali “scomodi”, predatori che per nutrirsi portano via importanti quantità di pesce all’industria della pesca intensiva. La soluzione è eliminare la concorrenza, anche a costo di uccidere migliaia di animali ogni anno. Di questo passo, secondo gli esperti, gli oceani e i mari di tutto il mondo saranno completamente disabitati entro il 2048, diventando un vero e proprio “mare di plastica”
Ovviamente non bisogna dimenticare le ripercussioni sulla vita umana: il documentario spiega che ogni anno muoiono 24 mila operai sulle navi da pesca, e che la pesca straniera ha contribuito al diffondersi di un’epidemia di ebola in Africa. Nonostante questo, l’industria della pesca ottiene sovvenzioni per 35 miliardi di dollari ogni anno.
Parola d’ordine: fare la connessione
Com’è possibile realizzare campagne contro l’impiego di plastica e la distruzione dei mari, e allo stesso tempo supportare la pesca e il consumo di pesce come sostenibili e salutari? Questa è una delle grandi contraddizioni messe in luce dal documentario, che si schiera contro le associazioni ambientaliste che, con la loro comunicazione, creano un vuoto di consapevolezza che non si può ignorare. Perché le grandi organizzazioni che si occupano di tutela dell’ambiente (e dei mari) non parlano mai della necessità di evitare il consumo di pesce?
La pesca non è sostenibile, il consumo di pesce non è sostenibile, e non si può essere “ambientalisti” dicendo addio alle cannucce di plastica ma continuando a mangiare il sushi. Sì, perché le reti da pesca costituiscono il 48% della plastica dispersa nei nostri oceani e altri tipi di attrezzi da pesca rappresentano la maggior parte del resto. Un’incoerenza che richiede necessariamente un cambio di rotta: non a caso, Seaspiracy punta proprio sull’alimentazione plant-based come chiave per la salvezza dei mari.
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Laura Di Cintio
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