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Lo specismo nelle parole: i modi di dire specisti che permeano la nostra quotidianità

Lo specismo è nelle parole, ancora prima che nel nostro modo di agire: lo testimonia una serie infinita di modi di dire e locuzioni che, inevitabilmente, plasmano anche il nostro pensiero (e viceversa): pensiamo a "oca", "asino" o "gallina" usati come offesa.

“Cervello di gallina”, “asino”, “tagliare la testa al toro” ma anche “capro espiatorio” o “parenti serpenti”: il nostro linguaggio quotidiano è permeato di modi di dire specisti che riflettono il nostro rapporto con gli altri animali, che la nostra società ci ha abituato a considerare come esseri inferiori, sulla base di una presunta superiorità umana.

Se è vero che il linguaggio non è solo il mezzo che abbiamo a disposizione per comunicare, ma è anche il riflesso della nostra percezione della realtà, è evidente che con gli animali abbiamo più di un problema: stereotipi e luoghi comuni spesso poco lusinghieri li vedono protagonisti loro malgrado, perché è lo specismo a dominare la nostra società.

Specismo nelle parole: è ora di cambiare prospettiva

Con il termine “specismo” si fa riferimento alla convinzione (infondata) per cui l’essere umano sia superiore alle altre forme di vita, attribuendosi diritti del tutto ingiustificati sulle altre specie. Questo atteggiamento – morale e intellettuale – spinge chi lo sposa a credere che le persone abbiano il diritto di sfruttare gli animali come uno “strumento” fornito all’essere umano dalla natura per soddisfare le proprie necessità e raggiungere i propri scopi. 

Ora, le parole hanno un significato ben preciso e il loro utilizzo è un enorme e potentissimo mezzo attraverso il quale si creano giudizi, si dà forma alla percezione della realtà e, in sostanza, si interagisce col mondo. Utilizzare parole o modi di dire che pongono gli animali in una posizione di subalternità rispetto all’essere umano, in qualche modo crea questa subalternità, dove poi è molto facile collocarli.

Per capirlo, può essere utile fare un parallelismo con una tematica simile, che riguarda l’uso dei femminili – specialmente in ambito lavorativo: “Succede che ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso, chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile (per esempio “avvocata”, nrd) non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza” scrive la sociolinguista Vera Gheno in una delle sue ultime fatiche editoriali.

Dare a una ragazza dell’oca per sottolinearne la superficialità e l’ottusità; dare del maiale a qualcuno, per evidenziarne la volgarità o l’ingordigia; e ancora, insultare l’intelligenza di qualcun* paragonandol* a una gallina, sono solo alcuni esempi di modi di dire specisti, che “umanizzano” alcune caratteristiche animali e – sulla base di un metro di giudizio puramente arbitrario e basato su caratteristiche umane – trasformano questi modi di dire in insulti. Crediamo che agire per eliminare la violenza e lo specismo dalle parole della propria quotidianità sia il primo passo per eliminare la violenza e lo specismo dalla realtà. 

Per molt* si tratta di un “problema secondario” e per molt* altr* può non rappresentare nemmeno un problema; eppure, se vogliamo lottare per un mondo più etico ed equo, questa lotta non può prescindere da una revisione sistematica anche del modo in cui parliamo. 

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