Oggi parliamo della storia degli allevamenti intensivi: sapevi che il primo tentativo di allevamento intensivo contemporaneo si deve ad un errore commesso quasi cento anni fa? Siamo in Delaware, dove nel 1923 la giovane allevatrice Cecile Long Steel riceve per sbaglio un carico di 500 pulcini, dieci volte tanto quanto ne aveva ordinati per la sua piccola fattoria nella costa ovest degli Stati Uniti.
Invece di segnalare l’errore e rimandare indietro i pulcini, Long Steel decide di tenerli in un capannone al chiuso: qui li nutre di mais e integratori e, a sua sorpresa, vede che i pulcini crescono e si riproducono, aumentando di numeri. Riuscirà a portarne a maturità 387 dei 500 iniziali.
L’allevatrice sceglie di ricavare qualche profitto dalla vendita dei suoi polli, che proporrà a 62 centesimi a libbra a ristoranti e hotel in città. Cecile Long Steel non lo sa, ma ha appena dato il via ad un allevamento intensivo di pollame ante-litteram. L’anno successivo, per replicare il successo, ordina mille pulcini, che tre anni dopo arrivano ad essere 10mila. A cinque anni da quel primo “errore”, la donna e il marito, ormai anche lui all’interno dell’attività, ordinano ben 26mila pulcini.
È bene specificare che esperimenti simili furono portati avanti anche nei decenni precedenti negli Stati americani della costa orientale – se ne ha una testimonianza in New Jersey, nel 1880, ad esempio – ma quello di Long Steele è stato il primo ad ottenere successo ed il primo imitato da tanti allevatori, che avevano visto i profitti che una simile attività aveva portato alla famiglia della giovane. Proprio nel 1928, 500 agricoltori di Delmarva, dove la donna abitava, scelsero di investire nella stessa attività di Long Steel.
I numeri di polli citati precedentemente risultano irrisori rispetto alle quantità di animali oggi intrappolate negli allevamenti: bisogna tenere conto che stiamo pur sempre parlando degli inizi del secolo scorso, quando le tecniche di allevamento erano ancora artigianali e gli spazi da dedicare a questa attività ridottissimi. Chiaro che con l’esperimento di Delmarva e il successo dell’industria della carne di pollo, l’idea di poter massimizzare il profitto dell’allevamento con strutture più intensive cominciò a farsi strada.
Ad agevolare questo triste sviluppo, la scoperta e la diffusione degli antibiotici ad inizio Ventesimo secolo: già dal 1938 gli antibiotici vennero commercializzati e proposti per uso animale, riducendo drasticamente la diffusione delle malattie all’interno delle fattorie – e conseguentemente dei primi allevamenti – garantendo al contempo una maggiore produttività delle attività di allevamento intensivo.
Gli anni ’60 e il boom degli allevamenti intensivi
Grazie all’avvento e alla rapida ascesa dell’uso di antibiotici per proteggere gli animali dalla diffusione di malattie, negli anni ‘60 continua la storia degli allevamenti intensivi e si assiste ad un vero e proprio boom degli allevamenti negli Stati Uniti, in Occidente e poi in tutto il mondo. Siamo in pieno boom economico: cresce il benessere, si punta al maggior profitto e alla maggior crescita possibile, quindi un contesto intensivo che garantisce massima resa in termine di prodotti di origine animale trova terreno fertile per crescere a dismisura.
È proprio dagli anni ‘60 che i numeri di produzione e dei capi animali in allevamento cresce in modo esponenziale, cominciando ad assomigliare sempre di più a quelli odierni. Se gli allevamenti intensivi prendono il via per la produzione di carne di pollo, ben presto ci si rende conto che il modello si può replicare con altre specie per fornire carne e derivati a prezzi sempre più accessibili per i consumatori, che possono ora permettersi di acquistarli più frequentemente che in passato.
Negli anni Ottanta è il turno dei maiali: Wendell Murphy, allevatore del North Carolina, decide di stabilire un allevamento intensivo di maiali. L’esperimento ha successo e Murphy, oltre a diventare senatore, verrà insignito del triste titolo di “re della carne di maiale”. Poi tocca ai bovini, ai tacchini, ai salmoni: ecco espandersi a macchia d’olio l’intensivismo per l’allevamento animale, con gli sviluppi e le conseguenze di cui oggi siamo testimoni.
Storia degli allevamenti intensivi: a che punto siamo oggi?
Per far capire la portata del fenomeno, torniamo ai numeri citati precedentemente. Se nel 1920 500 pulcini sembravano tantissimi da gestire a Cecile Long Steel, in meno di un secolo siamo arrivati a imprigionare e uccidere per la loro carne almeno 72 miliardi e 118 milioni, come riportano i numeri FAO. Polli che non solo muoiono in numeriche che nemmeno riusciamo a figurare a livello pratico, ma che sono stati nel tempo geneticamente modificati affinché riescano a compiere nel giro di appena 42 giorni il proprio intero ciclo di vita, da uovo a carne per nugget, filetti o straccetti.
Il 90% dei polli venduti oggi nel mondo è della razza broiler, a rapida crescita: in Europa, se ne vendono 7 miliardi l’anno, in Italia mezzo miliardo. La razza broiler è stata creata dall’uomo, che ha pensato soltanto a rendere più efficiente la produzione di carne come se i polli fossero oggetti. Nessuno, infatti, si è preoccupato che questa crescita abnorme comportasse deformazioni a zampe e articolazioni ai poveri volatili, costretti a vivere distesi a terra tra i propri escrementi. Non a caso, infezioni, malattie respiratorie, perdita di piume, persino ustioni sono all’ordine del giorno all’interno degli allevamenti. E questo accade ogni giorno: chi non muore in allevamento per le orrende condizioni di vita, lo farà poco dopo per consumo umano: ogni giorno ne uccidiamo, ed è una stima, almeno 197 milioni.
L’attività di allevamento intensivo, nelle dinamiche con cui è stata portata avanti e per i modi in cui gli animali che vi sono stati risucchiati ne hanno dovuto subire le conseguenze non ha nulla di naturale e no, non è qualcosa che abbiamo sempre fatto nella nostra storia. Se è vero che l’allevamento di animali per uso umano si data a millenni prima di oggi, i tempi, i ritmi e le dinamiche di crescita e produzione non sono nemmeno ascrivibili a qualcosa che si possa definire organico e vicino alla natura dei poveri esseri senzienti che continuiamo a sfruttare e macellare senza freno.
Basti pensare che negli anni ‘50 una mucca riusciva a produrre circa 665 litri di latte l’anno, oggi ne produce almeno il triplo. In natura, poi, le mucche sono solite vivere fino a 20 anni, quelle impiegate per produrre latte vivono solo 4 o 5 anni prima di finire al macello sfinite, doloranti, sfruttate sin dalla nascita.
Avvicinandoci alla fine del 20° secolo e ai giorni nostri, la struttura generale dell’agricoltura industrializzata è riuscita a prendere talmente piede da sostituire, nell’immaginario delle persone, l’idea che prima gli animali siano prima di tutto esseri al di fuori del nostro giogo, che non fossero oggetti a nostra disposizione per produrre tonnellate di cibo di cui non abbiamo bisogno. L’allevamento intensivo ha stravolto completamente le nostre abitudini alimentari, oggettivizzando esseri senzienti e nascondendo gli abusi e le violenze su di loro perpetrate in luoghi lontani dagli occhi, improntando un sistema alimentare in cui le proteine animali, mai come oggi, sono ormai presenti in qualsiasi pasto e in qualsiasi ambito, cambiando anche radicalmente il rapporto che le persone hanno con gli animali stessi.
Leggi anche: Gli allevamenti e i macelli a conduzione familiare sono davvero più etici?
Di queste e altre storture del sistema degli allevamenti intensivi, in ambito etico e ambientale, abbiamo parlato nella prima parte del nostro report di prossima uscita.

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