Si chiama The Chicken ed è il primo ristorante al mondo in cui è possibile mangiare carne coltivata in laboratorio. Siamo vicino a Tel Aviv, nel sobborgo Ness Ziona, dove la start-up SuperMeat ha aperto un locale in cui servire ai clienti carne di pollo “vera” ottenuta da cellule staminali, senza però l’uccisione degli animali. Il ristorante è unico nel suo genere, non solo perché dà per la prima volta l’opportunità a un pubblico vasto di provare questo prodotto, ma anche perché i clienti possono assistere “in diretta” alla sua produzione. Dietro a una parete in vetro, direttamente nel ristorante, lavorano i tecnici che si occupano della coltivazione delle cellule staminali da cui verrà poi ricavata la carne servita nel menu. Parliamo quindi di carne vera e propria, che impiega due giorni per svilupparsi ed essere pronta per il consumo.
Come spiega Tomer Halevy, responsabile gestione del prodotto per SuperMeat, le cellule prelevate dai polli “di origine” vengono coltivate in laboratorio, creando scorte potenzialmente infinite di tessuto muscolare e grasso. Alcune cellule sono state invece prelevate dalle uova, il che significa che la carne ricavata in questo caso proviene da animali non ancora nati. Il risultato è un menu che propone due piatti a base di filetto di pollo coltivato in laboratorio, servito in un panino come un classico hamburger. Le opinioni di chi l’ha provato parlano di una carne indistinguibile per gusto, aroma e consistenza dalla carne di pollo “tradizionale”. I clienti non pagano le consumazioni, perché il ristorante è ancora in fase sperimentale, ma devono compilare un questionario di valutazione che aiuti i ristoratori a capire il livello generale di apprezzamento della carne “pulita”.
Il lancio di questa tipologia di prodotto, anche se ancora in fase di test, segue tre anni di ricerca e sviluppo, durante i quali SuperMeat ha semplificato al massimo il processo produttivo per consentire una certa scalabilità, in base alla richiesta di mercato. Una domanda che, secondo gli esperti, è destinata ad aumentare nel breve periodo e che ha visto l’Unione Europea investire 2,7 milioni di euro per sovvenzionare un programma di ricerca sulla carne creata in laboratorio del consorzio Meat4All (“Carne per tutti”), a dimostrazione dell’importanza che la carne coltivata potrebbe raggiungere nel prossimo futuro.
Certamente, i costi sono ancora proibitivi: come spiega Ido Savir, CEO di SuperMeat, il costo di produzione di uno solo hamburger di pollo è di 35 dollari; una cifra elevata, ma comunque notevolmente inferiore rispetto a pochi anni fa. Basti pensare che il primo hamburger creato con questa tecnologia fu presentato nel 2013, dal professor Mark Post, Chief Scientific Officer dell’azienda Mosa Meat, che produce carne in vitro. Fu il risultato di anni di ricerca presso l’Università di Maastricht ed è costato 250.000 euro. In ogni caso, SuperMeat prevede che la carne coltivata diventerà più economica con la crescita del settore, raggiungendo probabilmente un costo competitivo con quello della carne d’allevamento entro i prossimi sei-sette anni.
Carne coltivata: perché non possiamo condannarla in toto
Partiamo da un presupposto inconfutabile: la carne coltivata non è vegana. L’uso di cellule staminali prelevate da animali vivi e la loro coltivazione in vitro rende la cosiddetta “clean meat” un prodotto complesso da esaminare, anche dal punto di vista etico. Da una parte troviamo sostenitori entusiasti, che vedono in questo nuovo modo di produrre proteine animali la soluzione a moltissimi problemi ambientali legati al nostro sistema alimentare. Il suo impiego su larga scala potrebbe contribuire a evitare la macellazione di più di 70 miliardi di animali ogni anno, permettendo di risparmiare un’enorme quantità di risorse naturali ed evitare l’emissione di una grande quantità di gas serra. Alcune stime suggeriscono che l’industria del bestiame produca il 51% di tutti i gas inquinanti derivanti dalle attività umane.
Dall’altra parte non mancano le critiche a questa tipologia di carne. Chi non vede in questo prodotto un’importante opportunità di cambiamento, ha forse una visione parziale del problema legato al consumo di carne, ma anche dei consumatori stessi. Che ci piaccia o no, non tutti sono vegani o hanno intenzione di diventarlo; è un dato di fatto, per quanto le tematiche etiche e ambientali siano sempre più stringenti. Rimangono – e forse rimarranno sempre – consumatori che “vogliono” mangiare carne. Indipendentemente dalla questione etica e ambientale.
Bene, l’industria alimentare deve necessariamente rispondere alla domanda di carne di questa fetta di consumatori che, lo ricordiamo, a oggi sono ancora la maggioranza nel mondo. Sperare che oltre 7 miliardi di persone diventino vegane in un tempo sufficientemente breve per contrastare la crisi climatica è utopistico. E forse è utopistico anche sperare in un mondo in cui tutti siano vegani, perché le scelte individuali – per quanto possano avere ripercussioni sugli altri – rimangono indiscutibili.
La diffusione della carne coltivata in laboratorio è, dal nostro punto di vista, un passaggio fondamentale. Ovviamente non si tratta di un prodotto per vegetariani o vegani, ma di un’alternativa concreta e reale per coloro che alla carne non vogliono o non riescono a rinunciare. Molti vedono nella carne in vitro un mezzo per portare avanti, in maniera quasi “ossessiva”, il consumo di animali. In parte possiamo dichiararci d’accordo, perché sappiamo che mangiare carne e derivati animali non è necessario e a dirlo sono le evidenze scientifiche.
Il nostro punto di vista sulla questione
Il punto è che spesso la tradizione, le abitudini e la pigrizia vincono sul cambiamento, per quanto benefico e semplice possa essere. È impensabile che l’industria alimentare ignori questo aspetto della questione: se è chiaro che non tutti sono o diventeranno vegani, è fondamentale fornire un’alternativa alla carne che aggiri il problema etico e ambientale legato agli allevamenti intensivi. Per molti consumatori, la carne a base vegetale non è un’alternativa abbastanza valida, e occorre fare un passo ulteriore.
Certo, la carne in vitro pone sul piatto della bilancia il quesito etico legato allo sfruttamento degli animali da cui vengono prelevate le cellule staminali. VEGANOK, come Network composto solo da professionisti vegani, è al lavoro da oltre 20 anni per diffondere la filosofia vegan e il rispetto di ogni essere vivente. È chiaro che, se dipendesse da noi, tutti sarebbero vegani per rispetto degli animali e del pianeta. Ma vivere con il paraocchi non serve e, anzi, può risultare controproducente: in questo momento storico i vegani, anche se in continuo aumento, sono ancora una minoranza rispetto alla totalità dei consumatori onnivori, ed è un dato da cui nessuno può prescindere.
La carne in vitro comporta sì lo sfruttamento degli animali, ma non la loro uccisione; in più, la sua diffusione su larga scala salverebbe la vita di oltre 70 miliardi di animali ogni anno, a fronte del coinvolgimento di qualche centinaio per la sua produzione. Da un punto di vista etico non è accettabile, ma è un compromesso per fare un passo avanti verso il cambiamento. Da vegani, capiamo e sosteniamo coloro che affermano che la carne non serve e siamo i primi a diffondere una cultura basata sul rispetto degli animali. Da professionisti, però, sappiamo che il mondo non è ancora pronto per una “rivoluzione vegana” a 360 gradi, e che l’industria alimentare ha bisogno di innovazioni tecnologiche di questo genere.
Sarebbe una mossa insensata non accettare oggi la carne in vitro e le possibilità legate alla sua diffusione, in attesa di un futuro (incerto) in cui il mondo sia vegano al 100%. Un passo alla volta è il modo migliore per arrivare alla meta.
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