Vegani allevatori

Se tutti diventassero vegani, che cosa ne sarebbe degli allevatori?

Molti pensano che se tutti, di punto in bianco, decidessero di diventare vegani, sarebbe la fine degli allevatori. Ma è davvero così?

Fermati a pensare a quante volte, nella tua vita, ti ha tolto il sonno il pensiero dei casellanti sostituiti dai caselli automatici in autostrada, oppure quello dei cassieri del supermercato dimezzati con l’avvento delle casse automatiche. Come dici? Mai? Ecco, allora non ci spieghiamo perché all’idea che tutt* diventino vegani si scateni un moto di preoccupazione e compassione per il lavoro e alla vita degli allevatori (e di tutti coloro la cui occupazione è in qualche modo legata al consumo di derivati animali).

Sicuramente, si tratta di un argomento importante e da non sminuire, ma che va affrontato nella sua interezza, partendo dall’aspetto più semplice: ammesso che un giorno tutta la popolazione mondiale possa scegliere di seguire un’alimentazione 100% vegetale, questo passaggio non avverrebbe certo da un giorno all’altro. Sarebbe un cambiamento lento e graduale – già in parte avviato, a dire il vero – che darebbe modo e tempo ai lavoratori del settore zootecnico di trovare un’alternativa.

Pensiamo ai cambiamenti del passato, che hanno coinvolto altre categorie di lavoratori: c’è stata un’epoca in cui il lavoro di spazzacamini, ombrellai, scrivani e, più di recente, lattai e centralinisti ha smesso di essere richiesto dalla società e questi mestieri sono pian piano scomparsi. Come queste, molte altre professioni nei secoli si sono evolute, adattandosi alle necessità del mondo a loro contemporaneo, o semplicemente sono cadute in disuso. Allo stesso modo, non c’è alcun valido motivo perché non possa accadere la stessa cosa per la professione dell’allevatore.

In questi anni, con la lenta ma costante diminuzione del consumo di carne a cui abbiamo assistito, moltissimi allevatori hanno già dimostrato che una trasformazione di questa professione è possibile, oltre che profittevole: non si contano coloro che hanno detto addio all’allevamento – e i cui animali sono stati spesso accolti in santuari – per dedicarsi all’agricoltura, dando vita ad aziende di successo.

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Il dilemma morale

Un aspetto non trascurabile riguarda la questione etica e morale legata a questa riflessione: la filosofia vegan combatte qualsiasi tipo di sfruttamento animale da parte dell’uomo ed è permeata da una visione antispecista del mondo. In quest’ottica, il lavoro dell’allevatore è una delle professioni “da smantellare” quanto prima per consentire la liberazione animale.

Anche se ovviamente condividiamo questa visione, pensiamo che sia utile guardare la questione da un’altra prospettiva: molto spesso, coloro che scelgono di fare questo mestiere, crescono in contesti rurali e portano avanti il lavoro di famiglia. Allevare animali per poi mandarli al macello è la normalità per queste persone, che spesso – anzi, quasi sempre – non vedono il problema etico e morale che questa professione solleva. Gli allevatori non sono necessariamente una categoria di lavoratori  “cattivi” e crudeli, ma molto spesso portano avanti un’attività – sicuramente crudele e anacronistica – perché fa parte da sempre del loro contesto culturale.

Parlando anche di coloro che lavorano nei macelli, non bisogna dimenticare che molto spesso sono loro stessi vittime di questo sistema: gesti meccanici e ripetitivi, alienazione, contatto costante con una violenza aberrante sono la norma per questi lavoratori. Chi lavora all’interno di allevamenti intensivi e mattatoi, partecipa a una vera e propria catena di smontaggio, nella quale i protagonisti sono esseri senzienti privati della propria soggettività, per diventare “pezzi” di una produzione continua, violenta e sistematica. Spesso, però, chi fa questo lavoro non ha alternative e non ha possibilità di scelta.

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Il cambiamento deve partire “dall’alto”

Sicuramente, perché possa avvenire una transizione che sia rapida, efficace e che possa rappresentare un cambiamento concreto a favore dei diritti animali, senza portare alla rovina migliaia di lavoratori, è necessario anche un intervento “dall’alto”. Come sappiamo, attualmente esistono fondi – sicuramente in Europa, ma non solo – che vengono destinati a finanziare il lavoro degli allevatori, e questo è uno dei motivi per cui i prodotti di origine animale rimangono economicamente accessibili. 

Se questi sussidi venissero spostati verso l’agricoltura, il prezzo dei prodotti animali inevitabilmente aumenterebbe, rendendoli meno accessibili e meno convenienti, favorendo al contempo uno shift delle occupazioni dall’allevamento all’agricoltura. Se questo passaggio per qualsiasi motivo non fosse possibile, sarebbe comunque utile fornire sussidi a tutti coloro che vogliano cambiare la propria attività, abbandonando l’allevamento. Le alternative esistono, i mezzi per un cambiamento che sia rapido e quanto più possibile indolore per il lavoratori anche, ma è necessario che l’evoluzione sia sistemica e prima di tutto culturale.

Per finire, è forse utile soffermarsi su un punto: per quanto la salvaguardia del lavoro degli allevatori – e, di conseguenza, della loro sopravvivenza – ci possa sembrare un argomento nobile, ancora una volta pensiamo di essere di fronte a una giustificazione debole e moralmente inaccettabile per il consumo di carne e derivati animali. Pensiamoci: quanti di noi si indignano per l’introduzione delle casse automatiche nei supermercati, che senza dubbio sottraggono lavoro ai cassieri, la cui presenza diventa superflua o marginale? Se la risposta è “nessuno”, allora siamo certi che la salvaguardia del lavoro degli allevatori sia l’ultimo dei problemi di coloro che sollevano questo argomento.

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