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I danni collaterali dell’industria della carne e degli allevamenti: le “vittime” umane

Spesso dimenticati quando si pensa alle crudeltà degli allevamenti, anche i lavoratori dell'industria della carne sono vittime di questa industria.

Quando si parla delle vittime degli allevamenti intensivi, è facile che la mente conduca a pensare agli oltre 80 miliardi di animali che, ogni anno, vengono allevati e uccisi per soddisfare la richiesta della loro carne. Eppure, in questa industria esistono anche altre vittime, meno visibili ma altrettanto importanti: gli animali umani.

La psicologa americana Melanie Joy, attivista per i diritti animali e autrice del saggio  “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche. Un’introduzione al carnismo e un processo alla cultura della carne e alla sua industria”, dedica un intero capitolo del suo libro a questo argomento. L’industria della carne genera dei danni collaterali le cui vittime – oltre 300 milioni, secondo Joy – subiscono un trattamento non migliore rispetto a quello riservato agli animali allevati e poi macellati. 

L’unica differenza, sta nel fatto che le vittime umane di quello che la psicologa definisce “carnismo”, sono invisibili: nessuno le vede, quasi nessuno ne parla e, così, smettono anche di esistere agli occhi dei più. Eppure, la loro esistenza deve essere portata sotto i riflettori, perché un altro anello della catena di aberrazioni che lega il settore degli allevamenti intensivi venga spezzato.

Le vittime umane dell’industria della carne: i lavoratori

Gesti meccanici e ripetitivi, alienazione, contatto costante con una violenza aberrante: chi lavora all’interno di allevamenti intensivi e mattatoi, partecipa a una vera e propria catena di smontaggio, nella quale i protagonisti sono esseri senzienti privati della propria soggettività, per diventare “pezzi” di una produzione continua e sistematica. 

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Diversi studi hanno analizzato le ripercussioni psicologiche che questo tipo di lavoro ha sulle persone coinvolte: una revisione sistematica della letteratura a cura della School of Psychology dell’Università del Kent, dimostra che esiste una connessione tra disturbi mentali come ansia e depressione, e il lavoro nei macelli. Secondo gli esperti, che hanno revisionato 14 studi sull’argomento, i risultati sono inequivocabili: tra coloro che lavorano nell’industria della carne e hanno a che fare con la gestione e l’uccisione degli animali, si riscontra non solo una prevalenza di problemi di salute mentale, ma anche una indubbia inclinazione alla violenza. Inoltre, come si legge nel testo, “ci sono prove che il lavoro nei macelli sia associato a un aumento dei livelli di criminalità ed esiste un legame tra il lavoro nei macelli e il comportamento antisociale in generale e il reato sessuale in particolare”.

Disturbi psicologici, macelli e allevamenti

Un altro studio, questa volta a cura delle Università di Boston e Washington, ha analizzato l’incidenza di un grave disturbo psicologico su un campione di lavoratori di un macello degli Stati Uniti. La prevalenza di questa problematica tra i lavoratori era del 4,4%, rispetto al 3,6% del resto della popolazione; anche la prevalenza di disagio psicologico lieve e moderato tra questi lavoratori (14,6%) è risultata superiore alle stime nazionali. 

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Di seguito un estratto del libro di Melanie Joy, che riporta una dichiarazione di un operaio di un allevamento: “Ho sfogato il disagio e la frustrazione del mio lavoro sugli animali. C’era un maiale vivo nel recinto, non aveva fatto niente di male, non stava neppure correndo. Era solo vivo. Ho preso un pezzo di tubo lungo un metro e l’ho picchiato a morte, gli ho schiacciato il cranio. […] è stato come se, una volta che ho iniziato a colpire il maiale, non potessi più fermarmi. E quando finalmente mi sono fermato, avevo consumato tutta questa energia e frustrazione, e ho pensato “In nome di Dio, che cosa ho fatto?

Le altre vittime del “sistema allevamenti”

Se tutto ciò non bastasse, i danni dell’industria della carne ricadono inevitabilmente anche su coloro che vivono nei pressi degli allevamenti e dei macelli, ma anche sui consumatori stessi. Da una parte, vivere nelle vicinanze di queste strutture implica inevitabilmente rischiare il contatto con rifiuti potenzialmente pericolosi, inquinamento dell’aria e dell’acqua, una gestione spesso arbitraria dei liquami e con le conseguenti malattie zoonotiche che possono trasmettersi dagli animali infetti all’uomo. Un quadro ampiamente dipinto dal documentario shock “The Smell of Money” (2022), che racconta la lotta dell’attivista Elsie Herring e della comunità rurale in cui vive, nella Carolina del Nord, contro la più grande azienda di carne di maiale del mondo. Un’epica battaglia legale durata nove anni per rivendicare il diritto ad aria pulita, acqua pura e una vita libera dal fetore.

D’altra parte, è ormai risaputo come il consumo di carne sia pericoloso per la salute: nel 2015, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha classificato le carni lavorate come “cancerogeno per l’uomo” (Gruppo 1, al pari del fumo di sigaretta), mentre il consumo di carne rossa è stato classificato come “probabilmente” cancerogeno per l’uomo “(Gruppo 2A).

È arrivato il momento di sovvertire lo status quo: la vita di miliardi di esseri viventi dipende dalla nostra capacità di fare la connessione e dire basta a queste aberrazioni. Lo dobbiamo agli animali negli allevamenti, a noi stessi e al Pianeta che ci ospita.

Leggi anche: Perché oggi non ha senso il collegamento tra carne ed evoluzione umana?


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